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Marcello Mottola
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191 Posts

Posted - 06 febbraio 2013 :  23:59:01  Show Profile  Visit Marcello Mottola's Homepage  Send Marcello Mottola an AOL message  Click to see Marcello Mottola's MSN Messenger address
Cari amici di Portosalvo dell'arte napulitana,
vi allego articolo mio (preannunciato sotto il porticato del Plebiscito, giorni fa, alla Trves) su Pietro Bianchi architetto della gran Chiesa a piazza Plebiscito pubblicato nella rivista di architettura on line: presS/Tletter n.03-2013.
Leggete come i nostri guai attuali vengono da lontano, a ben vedere!
Se lo fate girare online altri amici ne godranno web. Le vie del Signore dell'arte sono infinite.
Saluti neoclassici,
Eldorado plus

Napoli coloniale, piazzetta Trinità degli Spagnoli, sopra i Quartieri. Da via Toledo, all’altezza del nobile palazzo Zevallos Colonna di Stigliano, oggi Banca Prossima, dove sta in mostra “l’ultimo Caravaggio”, bisogna salire su dritto, (quasi) di fronte al puntuto portale barocco di Cosimo Fanzago.
Il mio giovane amico Antonio, della Casaforte S.B. mi fa da Virgilio. Sta di casa proprio “in piazzetta”, nell’ex chiostro del convento della Trinità, requisito nel 1806 con le leggi eversive dai francesi. Ha ri-architettato con la moglie un loft bellissimo, nei locali che un tempo –mi dice– erano sede di un grande stabilimento cromo-litografico. C’è infatti ancora qualche pietra d’arte superstite, a testimonianza di quella Napoli operosa che fu.
Antonio mi parla di Pietro Bianchi di Lugano, l’architetto neoclassico del Largo di Palazzo del Borbone e della famosa ottusa chiesa che troneggia sulla Piazza. Io sono qui per questo. E’ abile Antonio: con le sue parole mi ha incuriosito ad arte applicata. Del resto si occupa di “semina d’arte” a Napoli. E in questo caso direi di “semina d’architettura”. Se son cose fioriranno. E qui, sui Quartieri, c’è invece puzza di bruciato. Puzza di Napoli città coloniale, quella di sempre.

Anche Pietro Bianchi, “architetto di prima classe” del re Ferdinando, con un appannaggio mensile di ben 184 ducati, stava infatti di casa e studio e laboratorio qui, alla Trinità degli Spagnoli. Tutto franco, tutto a spese delle casse del re, (chiamalo fesso!). Ne è testimonianza ancor oggi l’alto cantonale dell’ex convento, una sorta di torre sulla piazzetta, un elemento distintivo, singolare per Napoli. Fu ridisegnato dal Bianchi stesso quale adeguato suo ingresso residenziale. E’ risolto (in gran parte) a mattoni, alla maniera lombarda, con qualche adattamento “locale” in tufo, come da consiglio regio.
La lapide che ricorda l’illustre residente non è grande, anzi è trascurabile. Sta posizionata anonima a tre metri di altezza, in corrispondenza del civico 21 della salita Trinità degli Spagnoli, svoltata l’omonima piazzetta. Te la devi andare a cercare nel gran groviglio dei fili elettrici, telefonici e d’antenne televisive che pende dal muro perimetrale. Abbiamo qualche difficoltà a leggerla, sbiadita com’é. Ma sforzandoci la leggiamo insieme, io e Antonio.

Ne trascrivo ‘e PresS/T il testo su un fogliettino, è simpatica:
“AL CAVALIERE PIETRO BIANCHI DI LUGANO / INGEGNERE ARCHEOLOGO INSIGNE / CONTROLLORE DEGLI SCAVI E ABBELLIMENTI IN ROMA / ARCHITETTO DEI BENI FARNESIANI / DEI REALI PALAZZI E DEL REAL MUSEO NAZIONALE / DIRETTORE DEGLI SCAVI DI POMPEI ED ERCOLANO / DELL’ANFITEATRO CAMPANO E DI TUTTE LE ANTICHITA’ DEL REGNO / DISEGNO’ E CURO’ LA EDIFICAZIONE DEL TEMPIO DI SAN FRANCESCO DI PAOLA / MORI’ IN QUESTA CASA DI ANNI 62 / IL 29 DICEMBRE 1849”.
L’Antonio-Virgilio mi dice di un libro dove stanno scritte tante cose suc-cose e succu-lenti del Bianchi … mi saluta, deve andare. E io vado ‘e subbito, ‘e PresS/T, a verificare sulle carte questo pezzo del serial “Napoli, città coloniale”.

Biblioteca Nazionale, sezione napoletana. E facile da raggiungere scendendo giù dai Quartieri spagnoli. Cerco nel vecchio schedario cartaceo il libro: “Pietro Bianchi 1787 – 1849 architetto e archeologo” a cura di Nicoletta Ossanna Cavadini, Electa 1996, catalogo della mostra. Lo trovo facilmente, compilo il modulo, me lo danno subito da leggere, che efficienza!
E’ molto interessante il libro. L’attacco dell’introduzione, dovuta al compianto Giancarlo Alisio, è fulminante. E’ illuminante. Si, confermo: più che un neoclassico di Milano, Pietro Bianchi è un “classico” di Napoli oggi, per governare i napoletani, gli artisti e gli architetti napoletani. Cogitò all’uopo il compianto Massimo Troisi: “Sai perché il Mezzogiorno d’Italia si chiama così? Perché quello scende dal Nord, si siede e mangia: è Mezzogiorno!” Però Troisi si sbagliava, trascurava un particolare: “quello” era chiamato a scendere dal Nord, per sedersi a pranzo a Mezzogiorno. La vicenda di Bianchi è esemplare.

Infatti a pagina 19 sta scritto: “Venuto a Napoli su invito di Ferdinando di Borbone nell’agosto del 1816 con l’incarico di esprimere solo un parere sui progetti per la chiesa di San Francesco di Paola prescelti dal Consiglio degli Edifici, Pietro Bianchi stilò una relazione intitolata: “Osservazioni sopra li due progetti della chiesa da costruirsi al largo di Palazzo ….”.
Il trentenne architetto ticinese proveniente da Brera e poi specializzato con un master nella Roma archeologica, (fu il Canova che “consigliò” il Borbone a chiamarlo, che endorsement!), criticò aspramente le soluzioni proposte dai “locali” Leopoldo Laperuta e Giuliano De Fazio e … con-vinse facilmente il Borbone, che non aspettava altro che questo “parere” superiore (del Nord, appunto) per trarsi d’impaccio dalla difficile scelta tra i locali, litigiosi doc.

Fu così che il Bianchi bianchissimo lavato con AVA (Alta Velocità d’Architettura) Milano-Roma-Napoli, si fottette subissimo l’incarico di approntare il nuovo progetto che verrà infatti realizzato a partire dal 1818. I lavori durarono una ventina di anni. La chiesa reale del Borbone (poi del Plebiscito unitario), fu infatti inaugurata nel 1836, con gran concorso di folla, autorità, alberi della cuccagna, dirette televisive e … e tutto quanto consueto in questi casi coloniali.
“Iniziava così, nel 1816” -continua l’Alisio- “la permanenza di Bianchi nella capitale che si concluse con la sua morte nel 1849, dopo anni densi di grandi soddisfazioni e di pessimi rapporti con l’ambiente professionale napoletano al quale rimase sostanzialmente estraneo. Che mal lo sopportava ritenendolo colpevole di avere ottenuto in maniera assai ambigua l’incarico …. bla, bla, bla”. (Oltre ai due già citati, De Fazio e Laperuta, al ricordato concorso indetto dal re Borbone, avevano partecipato nomi del luogo non secondari: Antonio Niccolini, Pietro Valente, i fratelli Gasse, Pompeo Schiattarella, Francesco De Cesare …; il Niccolini, a compenso, fu però poi anche lui insignito del titolo (e dei ducati) di “architetto di prima classe della Real Casa”, ma solo per tutto quanto riguardava “l’effimero” degli apparati e feste varie: ducati 120 al mese, 64 meno del Bianchi, quello del “parcellone”!, nda).

Salto a pagina 33. Nel bel saggio della curatrice del catalogo si ribadisce l’estraneità di Bianchi a Napoli e al suo ambiente: era l’architetto primo del re, puntuale, pignolo, onesto …; proverbiale era la cura maniacale delle sue campagne di scavo a Pompei. Diventò famosissimo in tutta l’Europa per lo scavo della casa del Fauno con il pavimento musivo della battaglia tra Dario e Alessandro. Correva l’anno 1831 e Bianchi aveva 45 anni. Tutte le Accademie se lo contendevano, ma a Napoli “… non ebbe mai una commissione privata al di fuori della casa regnante”. Mantenne Bianchi, questo è fondamentale, un profilo alto, distaccato, internazionale, superiore. Si amministrò molto bene, continuando a tessere l’antico legame con il Ticino, col l’Accademia di Brera di Milano e con l’Ateneo di Pavia nei quali si era formato. Napoli, città coloniale.

Sottolinea infatti la Cavadini: “Nella città partenopea Bianchi si circondò di maestranze lombarde-ticinesi, attribuendo loro incarichi importanti, che contribuirono a creare inimicizie e incomprensioni”. A pagina 29 del libro sono infatti ricordati alcuni di quei nomi: l’ingegner Luigi Gandini di Milano, diretto sottostante di Bianchi in qualità di “Ajutante dell’Ingegnere direttore”, con il considerevole stipendio di ottanta Ducati al mese; Raffaele e Gabriele Cattori di Lamone per le opere della cupola in stucco; Giorgio Pelossi di Bedano, che da stuccatore apprendista schizzò nel 1829 alla direzione dei lavori “de la grande cupola” (allora si che funzionava col merito l’ascensore sociale artigiano, nda). Ed ancora: l’architetto Luigi Cerasoli, milanese, che partecipò attivamente alla seconda fase della costruzione della chiesa di San Francesco di Paola; Michele Rusca che partecipò ai rilievi delle campagne di scavo a Pompei ….

Ma non basta: il 21 febbraio del 1818 fu stipulato il contratto d’appalto per edificare la Chiesa. Con chi fu stipulato, nella Napoli coloniale? Si stipulò con Domenico Barbaja, noto impresario di origine milanese, bingo, bango!!
E’ scritto ancora, pag. 30: “Tra Pietro Bianchi e l’impresario Barbaja vi furono sempre ottimi rapporti, incentrati sui rendiconti meticolosi che l’architetto redigeva con estrema precisione: la grande perizia tecnico-scientifica mai fu messa in discussione dai colleghi.” Del resto Bianchi, oltre a redigere il progetto, aveva ottenuto dal Borbone anche la direzione dei lavori.
E da bravo ticinese aveva una indiscussa competenza di cantiere. E quello reale di San Francesco di Paola non era cosa facile. Era di grandi dimensioni e impegnava molta manodopera da governare: dagli iniziali 4698 operai, leggo, si raggiunse infatti una punta massima di 8195, per scendere a 2878 verso il 1824. E c’è da giurare che, man mano che si andava alla stretta finale, verso la finitezza e l’accuratezza tecnologica, sarà salita la percentuale di manodopera specializzata, svizzerotta o del milanese, spedita “a Mezzogiorno”. Napoli, città coloniale, sempre la stessa storia … Va bene, basta così per un intermezzo.

“Si possono fare quelle fotocopie?”, chiedo. L’addetto concedente soppesa il libro, lo sfoglia, mi guarda, mi domanda: “Quante?”. “Una decina di pagine”, gli rispondo. “Va bene, le segni sulla richiesta”, concede, .. vado.
La tessera di 12 fotocopie costa un euro. Pago, le faccio da me stesso, sono le due del pomeriggio e non c’è nessuno. Consegno rapido il libro e scendo giù per le scale della biblioteca. Non ci venivo da tanti anni, amata biblioteca ….
Fuori pioviggina tristemente. Rivedo la piazza, la grande Chiesa, il difficile innesto tra la possanza del Pantheon e l’abbraccio del colonnato di San Pietro; l’alto tamburo mi sembra ancora più marziano di quanto non lo ricordassi ...
Vado nella città coloniale, alla fermata del bus. Ma quando passa l’R1, Lpp? Saluti, Eldorado
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