Marianna Vitiello
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Posted - 28 gennaio 2010 : 16:33:35
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Le chiese abbandonate: San Giuseppe a Pontecorvo Gioiello barocco tra rovine, abusi e bare profanate
C’è una crepa così larga che ci passerebbe la mano. Parte dall’alto, dove una volta c’era il soffitto, e cammina lungo tutto il muro alle spalle dell’altare fino a perdersi dentro al pavimento. S’è creata lenta e inesorabile, insieme ad altre mille, la sera del 23 novembre del 1980, data ufficiale della morte della chiesa. San Giuseppe delle Scalze, salita Pontecorvo, gioiello abbandonato nel cuore di Napoli. La chiesa è sporca, fatiscente, malridotta: è (meglio dire sarebbe) uno dei simboli dell’architettura barocca napoletana, opera di Cosimo Fanzago. È proprio quello stesso barocco che oggi viene osannato e celebrato nei musei della città, solo che qui a salita Pontecorvo non sciamano folle di turisti entusiasti, passano persone distratte, abituate a quello scempio. La chiesa di San Giuseppe delle Scalze è il simbolo delle battaglie del «forum Tarsia», cento cittadini un po’ folli e molto appassionati, che vogliono ad ogni costo far rivivere quel gioiello. Nelle sale che circondano la struttura, e che vengono condivise con la comunità «Servire», organizzano incontri e convegni: quando ci riescono, spalancano le porte di quel che resta della chiesa (lo faranno anche oggi per chi vorrà dare uno sguardo), ma lo spettacolo è desolante, da far accapponare la pelle. Il soffitto che crollò dopo aver ricevuto i colpi di maglio del terremoto, è sostituito da una poderosa copertura di tegole; laddove una volta c’erano le tele di Luca Giordano e Francesco De Maria, ora c’è solo il tufo nudo. I dipinti sono custoditi al museo di Capodimonte, era l’unico modo per preservarli dall’abbandono e dai ladri: «Subito dopo il sisma del 1980 questo posto fu preso di mira. Portarono via quasi tutti i marmi, perfino le colonne che reggevano la balaustra dell’altare. Quella roba fu ritrovata un anno dopo in un negozio d’antiquario di Udine. È stata recuperata e conservata», il racconto è di Ezio Esposito del «forum Tarsia» che abita di fronte alla chiesa e la ama con forza. Fa da cicerone, spalanca le porte delle scalette che arrivano al tetto dove c’è una vista mozzafiato sulla devastazione di marmi spaccati e spaccature impressionanti. Ma lassù si può anche scoprire, da vicino, la meraviglia di quel che resta degli affreschi. Racconta Ezio Esposito, autore di un presepe artistico riprodotto nei libri di tutto il mondo: spiega una storia che diventa realtà materiale. «Quello è il bassorilievo del cardinale Giunta», indica uno dei pochi beni che hanno resistito al tempo e all’incuria. «Lì c’è quel che resta del cardinale», spiega mostrando una cassettina rossa, alla mercé di chiunque, dalla quale spuntano le ossa del prelato. Poi si scivola giù, sotto al pavimento della chiesa pensata da Fanzago. Nella terra santa dove per secoli hanno riposato i resti delle monache del convento collegato alla chiesa e dove i nobili della zona avevano la possibilità di deporre i loro cari. Scivolare laggiù, nel regno dei morti, all’inizio regala un senso di pace. Non ci sono i segni del terremoto. Qui non è arrivata la spallata che ha mandato in malora la chiesa. Però ci sono arrivati gli uomini, e hanno prodotti danni più gravi. Hanno giocato con le ossa, aperto bare, provato a eseguire riti (ne parliamo più approfonditamente nell’articolo sul fondo della pagina). Roba che provoca rabbia e ripugnanza. Tornare in superficie, anche se si finisce nella polvere e tra le crepe, restituisce ossigeno. Sulla facciata della chiesa, protetta da una impalcatura dopo l’ultimo crollo di intonaci che risale a cinque anni fa, le tre statue imponenti che guardano la strada sono annerite e spaccate, ma restano il simbolo di quel luogo. Al centro c’è San Giuseppe, ai lati San Pietro d’Alcantara e Santa Teresa. Ezio Esposito le guarda e sorride. Sono volti di famiglia per lui: «Ci proteggono, anche se la città s’è dimenticata di loro». (1 / continua) 30 gli anni di chiusura La chiesa di San Giuseppe a Pontecorvo è chiusa dal 1980. Il terremoto provocò profonde lesioni alla struttura e i padri Barnabiti la abbandonarono definitivamente due anni dopo il sisma consegnandola al Comune
175 il costo per il tetto L’intervento più importante per la conservazione della struttura risale al 1997 quando furono spesi 350 milioni di lire, circa 175mila euro, per sostituire il tetto che era quasi completamente crollato e proteggere l’interno
1619, la data di fondazione Sull’area dove sorge la chiesa, un tempo c’era Palazzo Spinelli. Nel 1619 fu avviata la costruzione dell’edificio sacro che arrivò alla definitiva struttura tra il 1643 3 il 1660 con l’intervento di Cosimo Fanzago
Lo scempio Nella casa del custode, disabitata da anni, è stato ricavato un vano con finestra interna Lavanderia nella cripta, filo per stendere i panni tra le ossa delle monache
Sul sagrato coperto di San Giuseppe a Pontecorvo, dietro al portone, al centro fra le due scale che conducono alla chiesa, c’è una casetta abbandonata. Due stanze nelle quali un tempo vivevano i custodi e che oggi vengono utilizzate per piccole mostre dei ragazzi della zona. Vivere lì doveva essere difficile. Non c’è una finestra, non comunica con l’esterno ed era complicato perfino stendere il bucato. Ma gli ultimi inquilini di quella casa non si sono persi d’animo. Hanno sfondato una parete che comunicava con la cripta sottostante, hanno allargato la stanza con calcestruzzo e mattoni, aperto una finestra e piantato nel muro i fili per stendere il bucato. Solo che quella finestra e quei fili stendibiancheria, affacciano direttamente sull’ossario dove, da secoli, vengono conservati i resti delle monache dell’antico monastero. I panni penzolavano giusto sopra i mucchietti d’ossa delle religiose di trecento anni fa. Oggi i «panni spasi» non ci sono più, ma la cripta sulla quale affaccia la finestra abusiva esiste ancora, e si trova in una situazione di estremo degrado. È evidente che l’accesso a quel luogo per lungo tempo è stato facile, alla portata di tutti. Ovunque ci sono segni di profanazione e, in qualche punto, restano tracce di messe nere. Se ne è accorto Luca Cuttitta, speleologo de «La macchina del tempo», durante uno dei rilievi in quella cavità che è ancora, in parte, inesplorata. Davanti al muro sfondato di una sepoltura, sotto una croce di legno, ci sono tracce di bruciato. Tutt’intorno ossa umane in pezzi. È il primo acchito con il luogo, e non è entusiasmante. Ma, purtroppo, non è l’immagine più dura nella quale chi s’avventura lì sotto, come abbiamo fatto noi, si imbatte. In una delle camere che si infilano l’una nell’altra, c’è un grosso cesto di vimini che un tempo era rosso e che oggi è sbiadito e quasi completamente sfasciato. all’interno una mano pia ha conservato tutte le ossa che ha raccattato in giro. Secondo le persone che vivono nella zona, ai tempi della guerra quella cripta era utilizzata come rifugio antiaereo, e quel cestino sarebbe stato un «regalo» da parte di chi otteneva protezione lì sotto. In tempi recenti, invece, qui sotto sono scesi vandali profanatori. Quasi tutti i muri delle sepolture sono sfondati. Uno proteggeva cumuli di ossa, decine di teschi e la bara di un alto prelato. La copertura è stata sollevata, lo scheletro è esposto in un bell’abito talare: chi ha aperto quella cassa non ha esitato a rubare l’anello del prelato, e forse anche un collare di prestigio, a giudicare dalla posizione del teschio, spostato. La scena più raccapricciante, però, si trova nel loculo di una famiglia nobile, oggi ignota perché ogni segno è stato cancellato dai predoni. Ci sono, sopra tutte le altre, due piccole bare bianche. Forse si tratta di gemellini morti assieme pochi mesi dopo la nascita. Anche qui le coperture delle casse sono state sollevate: gli abitini fanno tenerezza. Sui resti di uno dei due, qualcuno ha infierito. L’ha sballottolato, ridotto in pezzi. Un gesto orrendo, infame: chi l’ha fatto non conosce pietà.
(Il mattino 23/01/2010 – pag. 40 Cronaca) |
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