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Marcello Mottola
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Posted - 07 aprile 2010 : 12:04:00
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A napoli chiese in pieno centro storico inaccessibili, in rovina o chiuse, un patrimonio dell'arte italiana abbandonato al degrado. In questa sezione riportiamo gli articoli dell'inchiesta giornalistica di Paolo Barbuto de Il Mattino che sulla scia delle denunce del Comitato Portosalvo approfondisce il tema scottante della decadenza delle chiese napoletane. |
Edited by - Marcello Mottola on 17 aprile 2010 19:14:51 |
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Marcello Mottola
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Posted - 07 aprile 2010 : 12:08:20
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GENNAIO
Napoli. Le chiese abbandonate. San Giuseppe a Pontecorvo Gioiello barocco tra rovine, abusi e bare profanate Paolo Barbuto Il Mattino 23/1/2010 Il caso Chiesa di San Giuseppe gioiello barocco in rovina

Un gioiello del barocco che va in rovina, tra crepe gigantesche, bare profanate e abusi di ogni sorta: è la chiesa di San Giuseppe a Pontecorvo, uno dei capolavori di Cosimo Fanzago. La struttura è nel cuore di Napoli, a salita Pontecorvo e un gruppo di cittadini si batte per il restauro. E chiusa da trent' anni, dal terremoto del 1980: due anni dopo il sisma i padri Barnabiti la abbandonarono consegnandola al Comune. L'intervento più importante risale al 1997 con il nuovo tetto. Ma oggi la chiesa è di nuovo in rovina.
L'arte La grande tela di Luca Giordano è stata salvata e esposta a Capodimonte
C'è una crepa così larga che ci passerebbe la mano. Parte dall'alto, dove una volta c'era il soffitto, e cammina lungo tutto il muro alle spalle dell'altare fino a perdersi dentro al pavimento. S'è creata lenta e inesorabile, insieme ad altre mille, la sera del 23 novembre del 1980, data ufficiale della morte della chiesa. San Giuseppe delle Scalze, salita Pontecorvo, gioiello abbandonato nel cuore di Napoli. La chiesa è sporca, fatiscente, malridotta: è (meglio dire sarebbe) uno dei simboli dell'architettura barocca napoletana, opera di Cosimo Fanzago. E proprio quello stesso barocco che oggi viene osannato e celebrato nei musei della città, solo che qui a salita Pontecorvo non sciamano folle di turisti entusiasti, passano persone distratte, abituate a quello scempio. La chiesa di San Giuseppe delle Scalze è il simbolo delle battaglie del «forum Tarsia», cento cittadini un po' folli e molto appassionati che vogliono ad ogni costo far rivivere quel gioiello. Nelle sale che circondano la struttura, e che vengono condivise con la comunità «Servire», organizzano incontri e convegni: quando ci riescono, spalancano le porte di quel che resta della chiesa (lo faranno anche oggi per chi vorrà dare uno sguardo), ma lo spettacolo è desolante, da far accapponare la pelle. Il soffitto che crollò dopo aver ricevuto i colpi di maglio del terremoto, è sostituito da una poderosa copertura di tegole; laddove una volta c'erano le tele di Luca Giordano e Francesco De Maria, ora c'è solo il tufo nudo. I dipinti sono custoditi al museo di Capodimonte, era l'unico modo pei preservarli dall'abbandono e dai ladri: «Subito dopo il sisma del 1980 questo posto fu preso di mira. Portarono via quasi tutti i marmi, perfino le colonne che reggevano la balaustra dell'altare. Quella roba fu ritrovata un anno dopo in un negozio d'antiquario di Udine. E’ stata recuperata e conservata», il racconto è di Ezio Esposito del «forum Tarsia» che abita di fronte alla chiesa e la ama con forza. Fa da cicerone, spalanca le porte delle scalette che arrivano al tetto dove c'è una vista mozzafiato sulla devastazione di marmi spaccati e spaccature impressionanti. Ma lassù si può anche scoprire, da vicino, la meraviglia di quel che resta degli affreschi. Racconta Ezio Esposito, autore di un presepe artistico riprodotto nei libri di tutto il mondo: spiega una storia che diventa realtà materiale. «Quello è il bassorilievo del cardinale Giunta», indica uno dei pochi beni che hanno resistito al tempo e all'incuria. «Lì c'è quel che resta del cardinale», spiega mostrando una cassettina rossa, alla mercé di chiunque, dalla quale spuntano le ossa del prelato. Poi si scivola giù, sotto al pavimento della chiesa pensata da Fanzago. Nella terra santa dove per secoli hanno riposato i resti delle monache del convento collegato alla chiesa e dove i nobili della zona avevano la possibilità di deporre i loro cari. - Scivolare laggiù, nel regno dei morti, all'inizio regala un senso di pace. Non ci sono i segni del terremoto. Qui non è arrivata la spallata che ha mandato in malora la chiesa. Però ci sono arrivati gli uomini, e hanno prodotti danni più gravi. Hanno giocato con le ossa, aperto bare, provato a eseguire riti. Roba che provoca rabbia e ripugnanza. Tornare in superficie, anche se si finisce nella polvere e tra le crepe, restituisce ossigeno. Sulla facciata della chiesa, protetta da una impalcatura dopo l'ultimo crollo di intonaci che risale a cinque anni fa, le tre statue imponenti che guardano la strada sono annerite e spaccate, ma restano il simbolo di quel luogo. Al centro c'è San Giuseppe, al lati San Pietro d'Alcantara e Santa Teresa. Ezio Esposito le guarda e sorride. Sono volti di famiglia per lui: «Ci proteggono, anche se la città s'è dimenticata di loro». (1/continua)
30 Gli anni di chiusura La chiesa di San Giuseppe a Pontecorvo è chiusa dal 1980. Il terremoto provocò profonde lesioni alla struttura e i padri Barnabiti la abbandonarono definitivamente due anni dopo il sisma consegnandola al Comune. 175 Il costo per il tetto L'intervento più importante per la conservazione della struttura risale al 1997 quando furono spesi 350 milioni di lire, circa 175mila euro, per sostituire il tetto che era quasi completamente crollato e proteggere l'interno 1619 La data di fondazione Sull'area dove sorge la chiesa, un tempo c'era Palazzo Spinelli. Nel 1619 fu avviata la costruzione dell'edificio sacro che arrivò alla definitiva struttura tra il 1643 e il 1660 con l'intervento di Cosimo Fanzago. |
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Marcello Mottola
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Posted - 07 aprile 2010 : 12:11:49
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GENNAIO
L'Immacolatella a Pizzofalcone. Porta murata davanti alla chiesa Paolo Barbuto Il Mattino – Napoli 30/1/2010
C'è un muro di mattoni davanti al portone d'ingresso. La chiesa che sta in cima al monte Echia è vietata a tutti: Fuori i fedeli, fuori i turisti. Perché dentro c'è la devastazione. Segni di crollo, cumuli di macerie, altari spaccati, tabernacoli aperti. E poi sassi, polvere, animali morti ovunque; e lingue d'acqua che scivolano giù dai muri in mezzo a prati verdi di muschio. Potrebbe essere semplicemente il resoconto di una storia d'abbandono. Invece questa è la storia della drammatica fine di una chiesa sorta nel 700 e rimodernata nell'800, piazzata in cima al monte dove è nata la storia di Napoli e incastrata fra palazzo storici, dall'archivio militare alla caserma Nino Bixio alla Nunziatella. Era un luogo amato dalla gente di Pizzofalcone. Se provate a fare un giro nella zona, ognuno ha un ricordo legato a quella chiesa. Matrimoni, prime comunioni, funerali. Era bella e considerata «importante», perché bastava salire le scale che portavano all'ingresso per avere la città al piedi. in un colpo d'occhio tutto il golfo, da punta Campanella a Mergellina, con Ischia sullo sfondo e il Castel dell'Ovo così vicino che bastava allungare una mano per toccarlo. Usare l'imperfetto è un obbligo: tempo verbale che conduce inesorabilmente sul territorio dei ricordi. Era bella, era affascinante. Oggi, praticamente, quella chiesa è cancellata dalla vita del quartiere e della città. Le due scalinate d'accesso al portone sono bloccate da muri di mattoni e cemento alti due metri; lo stesso portone verde è schiacciato da una parete grezza. Messaggio fin troppo chiaro: lì dentro non si deve entrare. Il pericolo statico era incombente vent' anni fa quando la chiesa venne sgomberata. Lo è ancora di più oggi che la struttura è completamente devastata. Quando a metà dell’800 l'architetto Jaoul restituì la chiesa al parroco Scaramella (dopo aver demolito la precedente struttura del 700 e averla allargata), era ricca di materiali pregiati e opere d'arte. Nel 1856 Carlo Celano, meticoloso autore di «Notizie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli» raccontava che c'erano cinque altari di marmo pregiato, cancelletti di ferro dorato, statue di pregio nelle nicchie alle spalle dei tre altari frontali, tele di Raffaele Spanò e Giovanni Girosi alle pareti. Una meraviglia, resa ancora più imponente dalla grandezza della struttura a croce greca, una «immensità» che ancora oggi le persone che hanno frequentato quel luogo ricordano con emozione. Oggi due dei cinque pregiati altari in marmo sono sepolti da macerie, stame e tele non sono pi all'interno dell'edificio sacro; ed è una fortuna, perché ogni cosa che c'è dentro la chiesa porta i segni dell'abbandono, della devastazione, del vandalismo. Sull'altare maggiore il tabernacolo è aperto, non c'è segno di oggetti all'interno, ma giusto lì davanti c'è un piccione putrefatto che probabilmente ha usato quel luogo sacro come nido. Il marmo è spaccato in più punti, come se un operaio maldestro avesse provato a smontarlo per portarlo via. L'antica porta di legno sulla destra è letteralmente sradicata dal muro, al centro della balaustra di marmo c'è un pallone supersantos incredibilmente rimasto gonfio, anche se ricoperto da due dita di guano. Anche gli altri altari, quelli che emergono dalle macerie e sono visibili, mostrano i segni della devastazione, ma almeno le porticine che proteggono l'ostia non sono aperte: tutte ben chiuse a chiave. Sul pavimento, che doveva essere di rilucente marmo bianco, ci sono quattro dita di polvere che rendono impossibile scorgere segni di intarsi o scritte. I banchi dove i fedeli ascoltavano la messa sono ammassati ai lati della navata: bisognava fare spazio. Chissà per quale motivo, chissà quando. Quel che accade dietro alle porte murate non può saperlo nessuno.
Nel 700 era dedicata al S.S. Rosario, dopo il restauro dIl'800 e prese il nome di «Santuario parrocchiale dell'Immacolata» o «Immacolatella». Per la gente del luogo, però, resta la chiesa delle «Montagnelle». La ricostruzione Bastarono tre anni, 36 mesi, a metà del 1800 per abbattere la chiesa che era sorta cento anni prima, e ricostruirla molto più ampia. Determinante il sostegno del parroco di quell'epoca, Pietro Scaramella. Il rischio Per problemi di tenuta statica la chiesa dell’Immacolatella venne abbandonata di tutta fretta venti anni fa. Da quell'epoca non è stata più utilizzata per la messa e davanti al portone è stato alzato un muro. [/black] |
Edited by - Marcello Mottola on 07 aprile 2010 12:14:35 |
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Marcello Mottola
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Posted - 07 aprile 2010 : 12:14:13
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FEBBRAIO
Le chiese abbandonate Santa Maria ad Agnone Tribunali, crolla il monumento di Assunta Spina 13 febbraio 2010 - Paolo Barbuto Fonte: Il Mattino

Verso il cielo plumbeo si apre lo squarcio della volta crollata: sembra una bocca spalancata a urlare la disperazione per l’abbandono. Via Oronzio Costa, chiesa del complesso di Santa Maria ad Agnone. Ma è giusto chiamarla ancora chiesa? Forse sarebbe più appropriato parlare di resti, pietre accatastate, mura con gli affreschi cancellati dalla pioggia, dal gelo che li ghiaccia e poi dal sole che li cuoce. Il coro in legno è collassato; l’altare non c’è più: portato via chissà quando, chissà da chi. Laddove il prete diceva la messa, oggi c’è un muro sfondato. Poco più sopra doveva esserci una tela, oggi c’è il tufo nudo. Intorno a quello spazio vuoto resistono, irridenti, gli stucchi dorati rifatti nel ’700: luccicano bagnati di pioggia, tra poco (giorni, settimane) andranno ad aggiungersi al cumulo di detriti che ricopre il pavimento. La facciata incombe sulla strada. La chiesa è lì da più di millecento anni. Fondata nell’883 dopo Cristo, è stata un punto di riferimento per la gente del quartiere da sempre. Quando c’erano le Benedettine nel 1300, quando arrivarono i Padri Ospedalieri nel 1500, perfino quando il complesso retrostante fu trasformato in carcere femminile nell’800, e il luogo sacro fu vietato al culto. In quel carcere Salvatore Di Giacomo immagina che venga rinchiusa Assunta Spina che, innocente, si accusa d’omicidio per amore di Michele. Oggi la facciata è diroccata, pericolante. Un pericolo costante e opprimente sulle persone che circolano lungo la strada, soprattutto per i bimbi della scuola elementare che confina con il rudere: il muro di sinistra del palazzo che ospita l’istituto scolastico è condiviso con la chiesa. Impossibile non pensare a un coinvolgimento della scuola, nel malaugurato caso di crollo definitivo della chiesa. Davanti all’ingresso del rudere, una volta c’erano reti rosse di protezione, di quelle che si usano per delimitare i cantieri. Oggi quelle reti sono ridotte a brandelli e penzolano dietro alle vetture degli automobilisti coraggiosi che parcheggiano lì davanti, incuranti del possibile cedimento della struttura. Due portoni affiancati separano la chiesa distrutta dalla strada. Uno è dipinto d’azzurro e serrato da un grosso lucchetto, l’altro ha perduto il colore, divorato dalle intemperie, e sarebbe aperto. Sarebbe. Perché pur non avendo serratura né lucchetti, non può essere spalancato perché è bloccato, dall’interno, da un cumulo di detriti alto più di due metri. Una volta alla chiesa s’accedeva anche dai bassi che l’affiancavano, affacciati su Vico della Serpe. Oggi quei bassi sono, naturalmente, abbandonati e negli anni gli ingressi sono stati a più riprese murati e poi riaperti, e di nuovo chiusi e ancora sfondati. Oggi c’è un piccolissimo passaggio nascosto dall’immondizia. Conduce ai sotterranei della chiesa che raccontano la storia antica del luogo. Sotto cumuli di sacchetti di immondizia e un tappeto di siringhe e lacci emostatici c’è l’antica pavimentazione greca, la stessa che è comparsa alle spalle della chiesa sotto a un giardino che ebbe uno smottamento durante il terremoto. Sopra quei mattoni larghi è cresciuta la chiesa che ha avuto tantissimi interventi e che nasconde una storia antica, tutta legata al nome. Nel 1802 Lorenzo Giustiniani narra le leggende sull’origine nel suo «Dizionario grafico ragionato del Regno di Napoli»: si chiama Santa Maria ad Agnone per leggero cambiamento di «agone», perché in questo luogo nell’antichità si svolgevano le gare ginniche. Oppure ha preso quel nome per la modifica di Aglone, quello della famiglia che fondò il luogo sacro. O ancora, sostengono altri si chiama così per le modifiche subite da «anguis», serpente in latino, per la leggenda di un rettile che infestava la zona. Quel nome, oggi, significa poco per i napoletani. Se non ci saranno interventi rapidi la chiesa sparirà del tutto, crollerà definitivamente, inghiottita dal terreno sul quale è cresciuta. Il pavimento della navata centrale è retto da una rete di travi di legno che lo puntellano. Le vedete nella foto qui sopra: sono vecchie, marce. Quando una sola di esse si spezzerà, la chiesa scomparirà. Definitivamente.
Le chiese abbandonate Santa Luciella Dall'antica cripta spunta un circuito per automobiline Secondo gli studiosi della storia della città, la chiesetta di Santa Luciella sarebbe stata fondata intorno all'anno mille per poi essere più volte ristrutturata fino alla realizzazione barocca che è ancora visibile e risale agli inizi del 1700
20 febbraio 2010 - Paolo Barbuto Fonte: Il Mattino
Potrebbe essere un piccolo gioiello barocco incastonato nel cuore della città. È semplicemente un portone chiuso da vent’anni, dietro al quale si nascondono abbandono e umidità, arte a brandelli e ossa. Sul bel pavimento della chiesa pezzi d’intonaco e legno; sotto a quel pavimento, nella terrasanta aperta e accessibile dalla chiesa, file di teschi ordinati e quattro fosse per la sepoltura dalle quali spuntano poveri resti umani. E in mezzo a pezzi di mandibola e d’anca, nel terreno che dovrebbe ricoprire le ossa, c’è ancora una automobilina usata chissà da quali scugnizzi, chissà quando (ma in tempi recentissimi), per correre lungo una pista disegnata tra gli scheletri. Chiesa di Santa Luciella: incastrata nell’unica curva a gomito dell’omonimo, breve, vicolo che collega san Biagio dei Librai a San Gregorio Armeno. Il cancelletto esterno è serrato da un pezzetto di filo di ferro. Il portone d’accesso è bloccato da un lucchetto chiuso trent’anni fa e mai più aperto, così è diventato un unico blocco impossibile da aprire. L’accesso è consentito solo dalla porticina laterale che un tempo era di solido ferro e oggi è tenuta insieme da brandelli di ruggine. Anche qui i lucchetti sono incastrati dal non-uso e occorre un martello per convincerli ad aprirsi. Si entra dal fondo della chiesetta che, sebbene abbandonata e in rovina, regala ancora belle sensazioni. L’altare ha perduto il pesante fregio di marmo centrale che si è adagiato per terra, nello spazio dove era conservata la piccola statua di Santa Lucia (Luciella, appunto), ora c’è il vuoto. Questa era la chiesa dei pipernieri, gli antichi artisti che scolpivano le pietre dure con le quali, assieme al tufo, è stata edificata la città. Uomini forti, abituati a lavorare con scalpello e martello, i pipernieri temevano solo una cosa, le schegge che schizzavano dalla pietra e si conficcavano negli occhi. Per questo veneravano Santa Lucia, protettrice della vista. Non potevano avventurarsi fino alla grande chiesa dedicata alla santa nel borgo di pescatori, perché avrebbero creato tensioni e conflitti. Così i pipernieri ottennero la loro personale Santa Lucia, piccola ma accogliente. Oggi la chiesetta è praticamente inglobata dagli edifici circostanti. Non è ridotta a un cumulo di pietre cadenti come tante altre chiese della città, quelle di cui abbiamo scritto dall’inizio della nostra inchiesta. Certo, i problemi di statica sono evidenti, soprattutto per il coro ligneo, retto da tre putrelle che ne evitano il crollo, sul quale c’è ancora l’antico organo originale. Per salvarla dalla rovina basterebbe un modesto intervento. Ma bisogna agire in fretta perché il degrado avanza ad ogni pioggia che fa infiltrare l’acqua, ad ogni colpo di vento che s’infila dai serramenti, ad ogni incursione di persone che riescono in qualche modo a forzare la porta e ad accedere. La chiesetta è retta da padre Mariano, esempio unico di sacerdote di frontiera che riesce a sembrare «normale». È parroco della chiesa dei santi Filippo e Giacomo, è attivo nella comunità di Sant’Egidio, è pronto ad accogliere nella sua chiesa quel che resta del popolo dei decumani che si riduce sempre di più. Per padre Mariano la chiesa di Santa Luciella è una sfida. Non una sconfitta e nemmeno una battaglia. È pronto a recuperarla e a trasformarla in luogo d’incontro per i ragazzi, e in biblioteca. Cerca una soluzione ai problemi di tenuta statica e non si rivolge solo alla sua comunità ma a tutta la Napoli che ha voglia di impegnarsi. Basterebbe l’intervento di uno sponsor, di una associazione, di qualcuno disposto ad accollarsi l’onere del restauro, per restituire alla città un pezzo di storia, e alla zona un luogo d’incontro.
ALLARME. la chiesa di San Gioacchino a Pontenuovo
Paolo Barbuto 27/02/2010 IL MATTINO
Quello che vedete, e leggete in questa pagina, è un grido d’allarme e di rabbia per una chiesa che è sempre a un passo dalla riapertura e che invece continua ad essere chiusa. Quando si spalanca il portone, la chiesa di San Gioacchino a Pontenuovo, di proprietà del Comune, pare fresca di restauro e pronta ad essere riaperta. Quando si entra nella struttura, invece, si scopre che quelle pareti rosa e bianche tinteggiate di fresco sono solo fumo negli occhi, una «facciata» per nascondere quel che c’è dietro: mura fratturate e pronte a crollare, scale inagibili sostenute con assi di legno putrefatte, il campanile che regge a malapena due pesantissime campane e una torre, inglobata nella struttura, che non si accascia al suolo semplicemente perché è legata con fili d’acciaio. Basterebbe un piccolo sforzo per mettere in sicurezza quel luogo e consentirne la riapertura. Non parliamo di un restauro completo, per carità: sarebbe necessario anche un piccolo lavoro per consolidare le parti fatiscenti e permettere al pubblico di rientrare, almeno, nella parte della chiesa che è stata restaurata. Invece dall’ultimo bilancio del Comune non sono venuti fuori i 400mila euro necessari (briciole tra le spese multimilionarie dell’Amministrazione). «Ma nel nuovo bilancio già sono stati appostati - spiega l’assessore Guida, responsabile della chiesa che è affidata all’assessorato agli archivi - ne ho parlato giovedì con il sindaco e con l’assessore Saggese. Posso già farci affidamento. Entro l’estate partirà il bando per la riattazione della struttura». Fondata nel 1600 per accogliere le ragazze abbandonate, la chiesa di San Gioacchino comprendeva anche il convento confinante (che ora accoglie l’archivio comunale), le cellette delle suore ai piani superiori, e una torre aragonese. Si tratta della torre «San Michele», che dopo aver smesso di proteggere la città, fu trasformata in un forno per panificatori e poi, alla fine dell’800 abbandonata e inglobata nei possedimenti della chiesa. Qui dentro, una volta, c’erano pregiate tele di scuola del Solimene. Realizzate da Domenico Mondo, furono rubate nel 1993 senza che nessuno ci facesse caso. Recuperate dalle forze dell’ordine durante un’asta nel 1998, furono restituite al Comune che oggi le espone al Maschio Angioino, in attesa di poterle riportare nella chiesetta, quando sarà completamente restaurata: «È un mio impegno personale», promette l’assessore Guida. Il pavimento in riggiole multicolori era stato realizzato nell’800. Anche quello è sparito: portato via, mattonella dopo mattonella, da abili ladri. Anche in quell’occasione nessuno si accorse di nulla, né avvertì rumori. Oggi è sostituito da asettici e banali mattoni in cotto. Le cellette delle suore, ai piani superiori, sono state a più riprese visitate dai ladri. Oggi sono inagibili. Erano già in rovina nel 1980 quando arrivò la spallata del terremoto a dare il colpo fatale. Camminarci dentro è emozionante e pericoloso. Le stanzette sono minuscole, le finestrelle anche: le monache avevano bisogno di poco. Anche percorrere le scale che arrivano fino al campanile è un terno al lotto. Si avanza in uno slalom tra i pali di legno che le puntellano; sotto ai piedi la pietra antica si sfalda. Però, una volta arrivati in cima, c’è un premio ineguagliabile: le due campane originali del ’700 sono ancora al loro posto, incorniciate dalle mattonelle verdi e oro dell’epoca. Funzionerebbero anche, ma è meglio evitare sollecitazioni perché le travi che le reggono potrebbero cedere da un momento all’altro. Il luogo più affascinante, però, è la torre aragonese. I resti dei forni per la panificazione sono ben evidenti, così come la macchia di fumo sulla parete alle spalle. Il soffitto è crollato, la pioggia ha favorito la crescita di un folto strato di muschio e vegetazione dentro al quale le scarpe affondano. Ovunque ci sono resti dei crolli e segni delle incursioni attuali: lattine di coca cola, bicchierini da caffè. Sul muro di fronte alla porta d’accesso, è poggiato il portone originale del ’700, con il maniglione dell’epoca, smontato chissà quando. Le intemperie lo stanno divorando, forse è già tardi per recuperarlo.
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Edited by - Marcello Mottola on 07 aprile 2010 12:46:07 |
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Marcello Mottola
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MARZO
Napoli, crolla S. Maria in Cosmedin la più antica parrocchia della città 13 marzo 2010 di Paolo Barbuto - il Mattino
NAPOLI - Gesù è disteso ai piedi della croce. Non ha retto ai colpi dell’incuria e dell’abbandono: è scivolato giù dal legno, ora è accasciato sull’altare. È impossibile cancellare dalla mente quell’immagine forte e cruda. È il simbolo di tutte le cento chiese di Napoli abbandonate e distrutte; è un grido di dolore che nessuno ascolta, e che si perde fra le mille promesse di intervento. Piazzetta Portanova, cuore della Napoli greca. Chiesa di Santa Maria in Cosmedin. Il portone verde che separa il luogo sacro dal caos della città, rappresenta anche il salto dentro a un mondo antico. Un mondo che dovrebbe profumare di storia e che invece ha il puzzo marcio dei piccioni in putrefazione e dei muri divorati dall’umidità. Nel 290 dopo Cristo fu Costantino a decidere che questa piazza avrebbe ospitato una chiesa: sarebbe diventato imperatore d’Occidente tredici anni dopo, ma già costruiva il suo potere sulle fondamenta sacre del cristianesimo. Nel 1845 Gennaro Aspreno Galante ricorda che questa fu una delle prime quattro parrocchie della città create nel quattordicesimo secolo. L’ultima istantanea scattata alla chiesa risale proprio al Galante che ne descrive i bei marmi, le statue, le fonti battesimali e gli affreschi. Oggi non c’è più nulla, nel vero senso della parola. Sulle pareti c’è il vuoto laddove una volta erano esposte le tele. Alzando gli occhi, il soffitto appare verde muschio per le infiltrazioni e non si vedono più affreschi né ornamenti. Nemmeno gli altari, sui quali era incisa la data 1703, stati risparmiati: tutti i marmi sono stati estirpati ed è rimasta solo la pietra nuda a rivelare che una volta in quel posto si celebrava messa. Non c’è traccia della vasca antichissima (di epoca costantiniana) che veniva utilizzata per il battesimo. L’unico elemento artistico è il Cristo accasciato, scivolato giù dalla croce. Le descrizioni dell’ottocento sono severe: Santa Maria in Cosmedin non custodiva sculture lignee di pregio. Ma il dolore per quello scempio non cessa, anche se era di scarso valore. Il crocifisso è appoggiato su quel che resta dell’altare nella prima cappella a destra. Le mani inchiodate hanno trattenuto le braccia in alto mentre il corpo si è piegato sull’altare, assumendo una posizione quasi «umana». Quella statua è crollata soprattutto per via dell’umidità. Il soffitto non protegge più la chiesa dalla violenza della pioggia, il pavimento antico, dopo le precipitazioni dei giorni scorsi, è coperto da un laghetto di due dita d’acqua. Anche i muri sono percorsi da imponenti rivoli che scivolano inesorabili, divorano stucchi e pareti, e s’infilano fin dentro il basamento della chiesa.
È decisamente preoccupante la gigantesca crepa che corre lungo tutta la navata. È larga e lascia passare acqua e vento. Un occhio inesperto penserebbe che la struttura è a rischio crollo e che la piazzetta antistante, colma di auto in sosta e passanti, è potenzialmente pericolosa. Ma lanciare allarmi senza avere certezze è atto irresponsabile: meglio aspettare che siano gli esperti (ingegneri o vigili del fuoco) a dare un giudizio attendibile sulla staticità dell’edificio. Sotto la chiesa c’è una terrasanta che è la copia identica dell’area superiore: altari e colonne antiche in mezzo alle ossa dei morti. Probabilmente era la prima chiesa fondata nel 290, sulla quale si sono succeduti i rifacimenti e gli ampliamenti. Ai lati della terrasanta una fitta rete di cunicoli si dirama per centinaia di metri. Dall’interno di Santa Maria in Cosmedin, si arriverebbe anche ai piani superiori dove hanno alloggiato per secoli i sacerdoti e dove c’era la stanza del vescovo Eustazio, la cui figura era venerata nel 1600 dai Barnabiti. Salire, però, è pericoloso. Anzi impossibile. Passaggi e scale si sfaldano sotto ai piedi, e percorrerli sarebbe un rischio grande. La chiesa è inserita nell’ambito del progetto di rivalutazione del centro storico Unesco: dovrebbe diventare museo e centro di sviluppo del vicino Borgo Orefici. Sono stati previsti 950mila euro. Se date uno sguardo alle foto di questa pagina capirete che basterebbero a poco.
APRILE
Napoli, Santa Maria a Vertecoeli. Il Cristo del 600 offeso e umiliato ai piedi dell'altare Paolo Barbuto Il Mattino - Napoli 3/4/2010

Ha gli occhi semichiusi e il dolore disegnato sul volto. Quel Gesù Cristo di legno ai piedi dell'altare non è stato deposto dalla croce: è stato strappato, spezzato, umiliato e offeso. Santa Maria a Vertecoeli, cuore della Napoli delle cento chiese; il Duomo è a quaranta metri in linea d'aria. Eppure la fede sembra lontana mille chilometri da questo luogo sacro. Il simbolo di Gesù che muore sulla croce, nell'oscurità di questa chiesa vietata dai giorni del terremoto, è stato profanato. Ed è stata Napoli a profanarlo. L'ha lasciato a marcire nell'incuria e nell'abbandono. Non l'ha visto mentre si sgretolava e scivolava giù dalla croce. Non l'ha raccolto quando è caduto esattamente ai piedi dell'altare: oggi quel che resta della statua del Cristo crocifisso giace in mezzo ai detriti e al marciume, al centro di un orrendo impasto di resti di piccioni morti, pezzi degli stucchi crollati e escrementi di animali. Fino ad ora la nostra inchiesta ci ha portati dentro undici chiese abbandonate. Avevamo già trovato (e fotografato) una statua di Gesù che era scivolata giù dalla croce e si era dolcemente adagiata su un altare. Abbiamo trovato soprattutto muri crollati e ossari abbandonati, affreschi ridotti in pezzi e bare profanate: ma nessuno degli orrori in cui ci siamo imbattuti, è stato più doloroso dello sguardo del Gesù Cristo di Santa Maria a Vertecoeli. La chiesa si trova in un vicolo al quale ha ceduto il nome. Nel palazzo di fronte c'è incastonata una colonna romana. Quella colonna viene usata per allacciare un filo di panni e per tenere le scope a testa all'insù: così le scope non si rovinano, la colonna romana sì «ma quella non serve a niente», dice la signora mostrando ineffabile certezza. La sola vista della facciata esterna mette i brividi: il gigantesco portone verde è incastonato in un mare di stucchi in pezzi, colonne aggredite dalla muffa, intonaci cadenti. Dietro al portone è stata costruita una gabbia di ferro: l'hanno messa dopo che i ladri avevano portato via qualunque cosa. Le grate e i lucchetti, adesso proteggono il nulla che è rimasto dentro a quel luogo. Anche il pavimento è stato rimosso. L'unico segno dell'antica bellezza è l'altare «tutto di scelti marmi colorati», come lo descriveva Celano 1856. È ancora al suo posto, malconcio, ma c'è. Dietro l'altare c'è un gatto mummificato che fa la guardia a una cassaforte svaligiata e al cassone dov'erano conservati gli abiti sacri. Un percorso di corridoi interni conduce al coro che ha dimensioni piccole e un tempo doveva essere bello. Oggi l'organo antico si trova esattamente al centro della struttura. Chi l'ha trascinato qui ha anche provveduto ad accartocciare le canne, a spezzettare i tasti, a ridurre in pezzi i meccanismi. Tutt'intorno allo stanzone («decorato con fini stalli di noce», scrive sempre Celano a metà 800), gli stalli non ci sono più. I sedili che accoglievano preti e iscritti alla confraternita, dovevano essere talmente beffi che qualcuno li ha portati via uno ad uno. Con precisione, però. Senza spaccare nulla. E lì dentro è rimasta solo la base di legno accostata al muro, a ricordare come doveva essere nel 1700. Una scala malridotta e (come in tutti i luoghi abbandonati) coperta di guano, conduce al terrazzo alle spalle del campanile. E qui lo sconforto si trasforma in preoccupazione, anzi in paura. In cima all'archetto progettato da Bartolomeo Granucci per contenere la pesante campana che suonava, costantemente per i morti, c'è una croce di ferro. La croce pesa almeno quindici chili, forse di più, e si trova paurosamente in bilico in cima all'archetto. Basterà un colpo divento pi forte, una pioggia insistente, uno sbalzo improvviso di temperatura, per dare l'ultimo colpetto e sciogliere quell'incastra così effimero. Prima che quella croce finisca sulla strada, per evitare che qualcuno rischi di farsi male, bisognerebbe fare qualcosa. E visto che qualcuno dovrà intervenire, si potrebbe ipotizzare un gesto pietoso: raccogliere da terra quel che resta della statua di Gesù Cristo e, almeno, deporlo sull'altare. Lontano dalle bestie in decomposizione e dagli escrementi dei randagi.
1734 La ricostruzione Quando la confraternita dl Santa Maria Vertecoeli divenne importante (e ricca) commissionò a Bartolomeo Granucci, allievo di Vaccaro e assistente di Solimena, il nuovo disegno della chiesa. Era il 1734. Gli stucchi esterni (oggi disastrati) li realizzò Giuseppe Scarola. Il pericolo. Campanile a rischio una pesante e antica croce di ferro sta per cadere sulla strada |
Edited by - Marcello Mottola on 07 aprile 2010 12:45:33 |
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Marcello Mottola
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Posted - 12 aprile 2010 : 22:56:44
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APRILE 2010
Le chiese abbandonate Santa Maria del Pianto Tappeto di guano davanti ai loculi dei cardinali Paolo Barbuto Il Mattino - Napoli 10/04/2010

La prima tomba del cardinale Riario Sforza è conservata nella chiesa di Santa Maria del Pianto, chiusa da trent’anni. La tomba la vedete nella grande fotografia di fianco al titolo: invece quello che vedete in primo piano e che vi sembra il pavimento, non è il pavimento. È un orrendo tappeto di guano, dello spessore di oltre dieci centimetri, che avvolge e ricopre qualunque cosa. Il guano, per capirci, è la cacca dei piccioni. Tutta l’area della chiesa chiusa e abbandonata (trecento, quattrocento metri quadri, forse di più) è sepolta sotto uno strato di quella robaccia. Quando le scarpe ci affondano dentro, la sensazione è ripugnante. Quando lo sguardo si alza su quel che resta della imponente chiesa del cimitero del pianto, la sensazione è peggiore. È stata sfregiata dal terremoto e dall’incuria, depredata dei beni più preziosi nel corso degli anni, lasciata marcire senza attenzione, senza pudore, senza cuore. La pala dell’altare fu dipinta nel 1662 da Andrea Vaccaro, le tele a destra e a sinistra furono realizzate da Luca Giordano un anno prima. Vuole la leggenda che le dipinse entrambe nel giro di due giorni, guadagnandosi il soprannome di Luca «Fapresto». Oggi le tre opere d’arte sono conservate nei musei cittadini, strappate per tempo alla distruzione. Un’altra tela, di grandi dimensioni e sicuramente contemporanea alle tre dei noti artisti, è appoggiata al muro di quella che fu la sagrestia. È bellissima e malridotta. Per reggere i punti dove mostrava cedimenti, qualcuno ha utilizzato puntine da disegno gialle: un tormento vedere quello scempio. L’esterno dell’edificio sacro è protetto da una doppia rete cementata a terra e alta due metri. Nessuno deve avvicinarsi a quell’opera d’arte in rovina. Il soffitto della chiesa, crollato, è stato ripristinato con lavori recenti; le torrette campanarie laterali sembrano pericolosamente in bilico. All’interno della chiesa il balcone di legno che sovrasta il portone d’ingresso, sul quale c’è un antico organo, si sfalda a vista d’occhio. Nel vero senso della parola, basta guardarlo per una decina di minuti per vedere brandelli di legno che vengono giù. Tutt’intorno uno scenario d’agonia. Marmi divelti dagli altari, iscrizioni funerarie nascoste dietro assi di legno, per evitare il crollo o il furto. Ai due lati dell’altare principale sono ancora belle e imponenti le tombe dove furono deposti, subito dopo la morte e prima delle successive traslazioni, Sisto Riario Sforza e Guglielmo Sanfelice: i cardinali più amati della Napoli dell’800. Quelle pregevoli sculture funebri sono immerse in un mare di guano; in un indescrivibile scenario di sfarzo e schifo che provoca rabbia e tristezza. Al centro della chiesa, dove il pavimento è stato rubato, il mare di guano lascia spazio a un rettangolo vuoto: è uno degli accessi alla terrasanta dove i nobili avevano il permesso di seppellire i familiari. Il marmo che proteggeva quel luogo è stato portato via: incisioni e iscrizioni antiche erano troppo pregiate per essere lasciate in pace dai ladri. Quel marmo adesso sarà sicuramente esposto dentro una villa elegante. Infilarsi sotto al pavimento della chiesa e recuperare immediatamente la sensazione di orrore e ripugnanza è tutt’uno. Le cappelle più antiche, protette da cancelletti di legno, sono state depredate. Hanno resistito solo quelle dove ci sono antichissimi e inespugnabili lucchetti di ferro. Anche lì sotto è tutta una teoria di topi e piccioni morti, anche nella parte più nascosta e oscura della chiesa c’è il disastro. Solo che qui è ancora peggio, perché la devastazione ha aggredito le casse da morto. Molte hanno ceduto di schianto facendo ruzzolare sul pavimento le ossa, altre sono mezze aperte e fanno cadere, di tanto in tanto, un pezzettino d’osso che arriva a terra ed emette un lugubre rintocco. Lasciarsi alle spalle l’orrore di Santa Maria del Pianto e ritrovare il sole caldo d’aprile, è una liberazione. «Nessuna incuria né abbandono in quel cimitero», l’Amministrazione, giusto ieri, dopo la scoperta della frana che sta portando giù le cappelle, ha chiarito che va tutto bene, che tutto è sotto controllo. Noi, chissà perché, non riusciamo ad esserne così sicuri. Forse perché due giorni fa abbiamo trovato strade spaccate come biscotti, e ieri abbiamo visto una chiesa del ’600 ricoperta da dieci centimetri di cacca di piccione e pronta a crollare.
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Marcello Mottola
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Posted - 17 aprile 2010 : 19:15:18
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APRILE 2010 Le chiese abbandonate: Santissimo Crocifisso ad Antesaecula Crollano i soffitti addio al convento del Settecento Paolo Barbuto Il Mattino - Napoli 17/04/2010
«Guardate, che il ragionamento è chiaro. Però mi dovete seguire, non vi distraete», la signora è appena uscita dal basso, attratta dagli intrusi e dai clic della macchina fotografica. Indossa una vestaglia rosa e parla a voce alta: «Questo coso qua davanti è tutto scassato, non serve a niente. Se lo buttano a terra, a noi ci arriva una bella aria e possiamo finalmente respirare. Siete d’accordo?». Sguardo basso e tentativo di guardare altrove per evitare di sbilanciarsi. Non si può essere d’accordo con la signora, ma «pare brutto» dirglielo. Non si può immaginare che venga raso al suolo, perché quel «coso» che le toglie l’aria è un antico convento di metà ottocento all’interno del quale è contenuta una chiesetta del ’700.
 Via Santa Maria Antesaecula, la strada più nota della Sanità perché qui, al numero 109, in un appartamento al secondo piano, nacque il principe De Curtis, Totò. Proseguendo la salita, un centinaio di passi dopo la lapide che ricorda il principe, c’è (ci sarebbe) la chiesa del Santissimo Crocifisso, con il convento annesso. Nemmeno le persone che abitano da queste parti conoscono il nome e la storia di quell’incredibile luogo divenuto sacro a metà del ’700 (quando fu eretta una chiesetta dedicata a San Francesco), e cresciuto a metà ’800 quando fu trasformato in convento e ritiro per giovani orfane. Per chi abita oggi in via Santa Maria ad Antesaecula è semplicemente un ingombrante e brutto palazzaccio mezzo distrutto da un bombardamento del 1943 e mezzo crollato per l’incuria e l’abbandono dei nostri giorni. Resti dell’originale chiesetta del 1764 sarebbero segnalati all’altezza del primo piano della struttura, ma non si riconosce quasi nulla dell’antica cappella. La chiesa nuova del 1849, invece è ancora lì. O meglio c’è quel che resta di quel posto che un tempo era «molto ridente... ricco di begli ornati e stucchi, con quadri di pregevole figura nelle cappelle laterali», com’è ricordato nella versione di metà 800 della descrizione di Napoli del Celano, aggiornata da Giovanni Battista Chiarini. Dimenticate gli stucchi, perché sono spiaccicati sul pavimento e coperti di immondizia e resti d’animali. Non pensate ai quadri di San Francesco e di San Gregorio Taumaturgo, perché non ce n’è più traccia nelle cappelle laterali. Soprattutto cancellate l’idea che quella chiesa e quel convento possano essere «ridenti» come venivano descritti a metà Ottocento. Oggi non c’è più nulla di bello né d’antico. I muri sono anneriti dall’incendio di immondizia o d’altro materiale, i soffitti del convento sono quasi tutti crollati, la cupola della chiesa mostra fratture attraverso le quali filtra liberamente la luce del sole. Fa paura passarci sotto, l’impressione è che possa accartocciarsi da un momento all’altro e venire giù con un rumore decisamente più potente degli scricchiolii che si sentono a cadenza regolare, quasi ritmica. Se volete farvi un’idea di quel che c’è, provate a pensare a un film di guerra, alle scene che seguono i bombardamenti (che hanno realmente colpito un angolo del convento). Se, invece, non riuscite a immaginare, date uno sguardo alle fotografie di questa pagina e capirete com’è, oggi, quel luogo. Come Napoli è riuscita a ridurre un convento e di una chiesa dell’800. Tra queste mura venivano accolte le ragazze orfane della città. Erano accudite, seguivano un percorso che le conduceva a imparare i mestieri di casa, poi alla maggiore età uscivano direttamente per andare nella casa dell’uomo che le aveva scelte come spose. Agli inizi del ’900 le giovani lasciarono spazio alle donne adulte senza casa né marito, zitelle o vedove, che iniziarono a occupare le stanze a pagamento, per sostenere la vita delle (poche) orfanelle rimaste. La chiesa è rimasta sempre in funzione, invece. Ben curata, secondo i racconti raccolti dalle persone della zona, e soprattutto ricca di quadri e ornamenti. Poi la grande guerra provocò le prime distruzioni e impose il ridimensionamento. Nell’ex convento restarono pochi vecchietti fino agli anni ’70. Quando morirono il complesso fu abbandonato, la chiesa fu sconsacrata, il contenuto fu razziato. Il Santissimo Crocifisso ad Antesaecula fu abbandonato. Oggi è a un passo dal crollo.
La storia Dieci anni fa la polizia scoprì un arsenale dietro il portone della sagrestia. Poi diventò centro di smercio della droga Trasformata in nascondiglio per armi e droga, murata e dimenticata
Tre pistole con il colpo in canna, pronte ad essere utilizzate: erano nascoste in fondo alla chiesa, dove una volta doveva esserci l’altare. Sotto un cumulo di immondizia la polizia, dieci anni fa ritrovò le tre armi, e scavando in mezzo al pattume che si era accatastato in quel luogo sacro nel corso degli anni, gli agenti ritrovarono un intero arsenale. C’erano fucili a canne mozze, passamontagna, mitragliatori Kalashnikov e Uzi di fabbricazione israeliana e, naturalmente, droga. L’antico convento trasformato in ospizio, abbandonato quando gli ultimi due anziani ospiti passarono a miglior vita negli anni ’70, era entrato tra le «proprietà» della malavita. Lì dentro si spacciava, in quegli spazi ampi e abbandonati i drogati andavano a nascondersi e a consumare le dosi appena comprate. Dicono che fosse anche un rifugio perfetto per chi aveva la necessità di sparire dalla circolazione. Subito dopo il blitz della polizia del 22 novembre 2000, si aprì una discussione sul futuro di quel luogo. Ma siccome le chiacchiere non approdavano a niente, si trovò la soluzione più facile: vietare per sempre l’accesso a tutti. Un squadra di operai si presentò a via Santa Maria Antesaecula con un camion colmo di mattoni di tufo. Iniziò l’ultimo sfregio alla chiesa e al convento. Tutti gli accessi furono murati: si partì dai piani superiori. Finestra dopo finestra gli operai chiusero materialmente ogni possibile via d’ingresso. Lasciarono, per ultimo, il maestoso portale della chiesetta. Uscendo si tirarono alle spalle i battenti di legno antico del portone. Poi cominciarono a gettare cemento e mattoni, fino a coprirlo completamente. Ma quelle porte murate hanno vietato l’accesso anche a chi avrebbe dovuto verificare lo stato della struttura che, lentamente, si è arresa al tempo e alle infiltrazioni. E ha iniziato a cedere, a crollare. Per proteggere la chiesa dai disastri degli uomini, hanno permesso che pioggia e dissesti la riducessero in macerie. |
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Marianna Vitiello
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Posted - 29 aprile 2010 : 01:08:13
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APRILE 2010
«Coinvolgeremo i giovani dei quartieri a rischio per valorizzare antichi edifici di culto che hanno segnato la nostra storia» "chiese aperte riconquistiamo i tesori della città" Il Mattino - Napoli 22/04/2010

Cardinale Sepe, nei quindici fascicoli della «Napoli sacra» rivivono le bellezze storiche e artistiche delle nostre chiese. Una geografia del sacro che è al contempo un percorso nella storia e nell’anima stessa della città. Un viaggio emozionante... «Ho visto con favore l’iniziativa speciale assunta dal Mattino di proporre ai lettori la rivisitazione di importanti pezzi della Napoli sacra, edita da Elio De Rosa. Un’idea intelligente e lodevole, che si richiama, senza dubbio, alla linea meridionalista del giornale e, quindi, alla scelta di promuovere e valorizzare il grande patrimonio di risorse artistiche e culturali, accendendo, questa volta, i riflettori sul notevole e prestigioso giacimento di edifici di culto che hanno segnato la vita e la storia della nostra città. Si tratta evidentemente di pezzi ineguagliabili di itinerari non solo geografici, ma anche storici e artistici, che ci fanno rivivere la grandezza degli artisti, lo spessore del vissuto religioso, la profondità di sentimenti di fede e di devozione. Ritroviamo la storia di una comunità e di un popolo che non si può cancellare o ignorare se si vuole richiamare e riaffermare la nostra identità e le sue indiscusse radici cristiane per far valere le ragioni della nostra speranza e della ricerca di una rinascita che non può mancare né ritardare ulteriormente». Eppure una parte considerevole del patrimonio storico e artistico della chiesa napoletana versa in condizioni di grande degrado e non è fruibile. Come intervenire? «Non c’è dubbio ed è molto triste avere e vedere tante chiese chiuse, non fruibili e in condizioni di grave degrado strutturale ma spesso anche ambientale. Le cause sono diverse, a partire dalla mancanza di adeguate risorse finanziarie e dalla pluralità dei soggetti titolari della proprietà. Ma più di tutto, forse, manca una cultura dell’arte intesa come bene produttivo e, quindi, fattore della economia e strumento prezioso delle politiche del turismo e del tempo libero. Come intervenire: intanto, definendo la proprietà, la competenza e la responsabilità. Noi ci stiamo provando con un lavoro di ricognizione di tutto quanto fa capo alla Curia arcivescovile, ma anche di collaborazione interistituzionale». Come far rivivere le testimonianze del passato? Cosa fare per valorizzare il patrimonio storico e artistico dei luoghi di culto napoletani? «Occorre stare in rete e fare un lavoro sinergico, con umiltà e spirito costruttivo, sapendo che ci sono importanti e grossi beni da recuperare e valorizzare per renderli patrimonio di tutti e dell’umanità intera, nonché per favorire uno sviluppo complessivo e integrato che faccia crescere la comunità locale. In questa direzione, posso dire di aver avuto singoli incontri con le singole istituzioni interessate, cui ha fatto seguito un primo incontro collegiale finalizzato non solo all’analisi ma anche all’individuazione della terapia opportuna, con l’elaborazione di un programma di interventi e di priorità, nonché di procedure di finanziamento. Questo avvio, per l’autorevolezza degli interlocutori e per la serietà dei contributi e delle posizioni, mi ha lasciato molto soddisfatto e mi ha reso fiducioso». Il centro storico di Napoli è patrimonio mondiale dell’Unesco. Eppure a fare il giro del mondo, soprattutto negli ultimi anni, sono state immagini di degrado... «Grande dolore, se non vergogna, ha trafitto il cuore della stragrande maggioranza dei napoletani e delle tantissime persone illuminate, serie, positive. Il danno che ne è derivato alla città è enorme e incalcolabile, sul piano morale prima ancora che su quello sostanziale, e chiama in causa la responsabilità diretta di coloro che per incapacità, per inefficienza, per indifferenza, per violenza e prepotenza si sono macchiati e si macchiano di gravi colpe, dimostrando chiaramente di non amare Napoli e di non amare neppure le loro famiglie e i loro figli, ai quali consegnano una città umiliata e offesa, una città sofferente, una città fiaccata da problemi e delusioni. Ma il cambiamento è possibile. Napoli ha dimostrato di saper reagire e di avere la forza e le potenzialità per risalire la china. Ci sono non soltanto le condizioni ma anche testimonianze eccellenti. Dobbiamo dare corpo alla speranza, sostenendo e incoraggiando le forze sane, le capacità, le professionalità, la concretezza delle idee». Lei ha dato un forte impulso all’ufficio dei beni culturali della Diocesi con la catalogazione di tutte le chiese appartenenti a Fec, Demanio, Curia e Comune. Ci può dire a che punto è questo studio? «Il lavoro, come ho detto prima, è stato avviato da tempo ed è a buon punto. Stiamo facendo chiarezza, creando i presupposti per interventi organici di recupero e di fruibilità, in maniera da irrobustire l’offerta culturale e turistica. È evidente che risulta fondamentale il ricorso alle possibili fonti di finanziamento, ma stiamo studiando pure percorsi e modalità». Dalle catacombe di San Gennaro alla Cattedrale: un percorso anche turistico da valorizzare. «Siamo in presenza di un itinerario forse unico al mondo per la ricchezza e la varietà artistica dei diversi giacimenti, che ci riportano ad epoche diverse. Ho già presentato un progetto che, oltre alle Catacombe di San Gennaro, valorizzi anche le opere artistiche presenti nel Tempio di Capodimonte, la Basilica della Sanità; poi, la Cattedrale, dove c’è il più antico battistero per immersione, la Basilica di Santa Restituta e la Cappella del Tesoro di San Gennaro, avendo inoltre la possibilità di visitare i resti dell’attigua basilica della Stefania e il primo Calendario marmoreo, prima di arrivare al Museo di Donnaregina Nuova, mentre poco distanti ci sono le antichità di San Lorenzo Maggiore, la Chiesa di San Paolo Maggiore, il Decumano, fino al meraviglioso complesso di Pietrasanta. Tutti hanno espresso parere positivo su questo progetto che spero si possa attuare al più presto. Credo veramente che si tratti di una ricchezza archeologica, artistica e museale senza alcuna possibilità di concorrenza sul piano internazionale, che può fare veramente la differenza in termini di sviluppo economico e di richiamo di flussi turistici». Lei si è battuto molto per la riapertura di Sant’Agostino alla Zecca. Quale sarà la destinazione di questa chiesa. C’è un progetto? «Il discorso è aperto e ha già riscontrato il concreto interesse e intervento del governo. C’è stato anche un primo stanziamento, che va opportunamente adeguato per la piena ristrutturazione del complesso monumentale. Ho evidenziato che, appena saranno terminati i lavori, la Chiesa sarà utilizzata come luogo di culto sotto la responsabilità di un sacerdote». Ci sono chiese sbarrate che potrebbero riaprire a breve termine? «Il recupero e la riapertura di chiese chiuse è uno dei principali obiettivi che mi sono dato sin dal mio arrivo a Napoli. Confermo che stiamo lavorando con impegno in questa direzione per restituire alla Diocesi e alla città gli antichi edifici di culto che sono patrimonio di tutti. È necessario superare questa situazione scandalosa, faccio appello a chi è responsabile del degrado affinché operino conseguentemente e definitivamente». I progetti di valorizzazione del patrimonio artistico della chiesa napoletana potranno coinvolgere anche i giovani dei quartieri a rischio? «Certamente, soprattutto i giovani che costituiscono il nostro riferimento principale e la nostra preoccupazione costante, perché bisogna operare in funzione delle loro aspettative rendendo concreta la loro speranza di inserimento nel mondo produttivo. Il difficile contesto economico forse non rende possibili soluzioni a tempo indeterminato, ma non facciamo cadere ogni utile opportunità. È di questi ultimi tempi, ad esempio, il progetto Chiese aperte che abbiamo sottoscritto con la Regione, per il quale saranno impegnati giovani dei nostri quartieri più delicati». L’arte - non solo quella sacra - e la cultura come volàno di sviluppo di una città, antidoto al degrado e alla violenza... «Credo che Napoli possa essere definita città di arte e di cultura. La storia sta lì a testimoniarlo e lo possono confermare anche indagini seriamente condotte sulla realtà sociale della città. È chiaro, però, che non basta proclamarlo e rivendicarlo, ma occorre impegnarsi per affermarne e valorizzarne le espressioni, i protagonisti, le potenzialità, soprattutto mettendo in atto misure e politiche di sostegno, di incentivazione e di promozione, offrendo allo scenario internazionale una immagine credibile, non offuscata, mortificata o annullata da episodi di violenza e di criminalità che purtroppo riescono a fare più rumore e imporsi alle interpretazioni, ai commenti e alla riprovazione di persone che non amano Napoli né il nostro Paese. L’arte e la cultura sono, soprattutto a Napoli, le basi su cui costruire la Nuova Città». |
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Marianna Vitiello
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Posted - 29 aprile 2010 : 01:09:55
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APRILE 2010
Le chiese abbandonate Il ritiro dei Dotti nel complesso dei Gerolamini La cappella del ’600 colpita dalle bombe e chiusa da 70 anni Il Mattino - Napoli 24/04/2010

Il soffitto a cassonetti del ‘400 è tutto ammassato per terra ai lati dello stanzone restaurato per metà. Per raccontare la storia di quei legni intagliati seicento anni fa, bisogna entrare della cappella dei «Dotti» che si trova nel cuore del complesso dei Gerolamini ed è vietata a tutti, perché è stata bombardata ed è ancora inagibile. Se siete perplessi non preoccupatevi, non è un errore. Quello che a prima vista può sembrare un articolo del 1944, quando Napoli cercava di risorgere dalle macerie, è invece una denuncia di oggi, del Mattino del 24 aprile 2010. Napoli fa ancora i conti con i danni della grande guerra. Questa è una storia dura e delicata al tempo stesso. Resa dolce dal luogo dov’è ambientata: maioliche e giardini che i Gerolamini governano e custodiscono con amore ed entusiasmo. Eppure estremamente dolorosa per ciò che racconta, e che vedete rappresentato nelle fotografie di questa pagina. È una storia che affonda le radici nel tempo, ma arriva in un lampo fino ai nostri giorni. A partire dal 1586 i Gerolamini comprarono tutti i palazzi della zona e li fecero abbattere per fare spazio alla maestosa chiesa che è stata recentemente ristrutturata (ma aspetta ancora la ufficiale e definitiva riapertura al turismo e al culto). Tra le strutture da radere al suolo c’erano anche tre chiese del ‘300 e del ‘400 dalle quali furono salvati alcuni oggetti sacri, qualche tela e quel soffitto a cassettoni che oggigiorno è ammucchiato per terra mezzo bruciacchiato. Oltre alla imponente e maestosa chiesa, l’ordine religioso realizzò, nell’androne dietro al chiostro, anche tre piccole cappelle, destinate alle discussioni sui testi sacri. All’inizio del ‘600, però, non era prevista la commistione di classi: così fu creata una cappellina per gli artisti, ne venne realizzata un’altra per i bambini e infine, la più imponente, quella per i Dotti, i dottori, le persone che sapevano più delle altre. Quest’ultima era la cappella più bella. Di fronte alla parete laterale con finestroni che davano sulla strada, c’era un muro cieco sul quale erano dipinte finestre talmente simili alle originali da confondere i visitatori. L’altare era custodito da due gigantesche raffigurazioni: san Pietro alla destra, san Paolo a sinistra, dipinti ad affresco in forma di statue. Al soffitto vennero applicati i legni del ’400. In fondo, un altare di marmi pregiati, sopra il quale c’erano affreschi dai vividi colori. Dietro a quell’altare una preziosa tela che gli esperti dell’800 hanno attribuito a Fabrizio Santafede. Oggi l’affresco dai colori intensi è percorso da una crepa imponente che si divide in due pericolosi rami. Di fianco alla rappresentazione di San Pietro, alla sinistra dell’altare, una spaccatura divide il muro esterno dal resto della chiesa. Pare quasi che possa venire giù da un momento all’altro. Il soffitto a cassettoni è stato sostituito da una copertura che, almeno, non lascia quel luogo esposto alle intemperie. I finestroni a «trompe-l’oeil» sono stati in parte ridisegnati. Sopra l’altare c’è ancora la tela antica e imponente. E’ decisamente malmessa. Ha un paio di grossi buchi e sembra bruciacchiata qua e là. Quel che c’è li sotto può soltanto essere intuito perché il gigantesco quadro è protetto da una plastica doppia che, oggi, serve ad evitargli ulteriori sfregi. Quando quel telo di plastica viene sollevato appena un po’, fa galleggiare una nuvola di polvere ma consente di vedere da vicino un’opera che andrebbe valorizzata, come accade per le tante e incredibili tele custodite nella quadreria del complesso religioso. Quella cappellina che è ancora bellissima, si trova in questo stato (eccezion fatta per il la copertura rifatta) dal 21 febbraio del 1943. Su Napoli piombarono le fortezze volanti dei futuri alleati, l’obiettivo era il Decumano maggiore che venne martoriato. I morti si contarono a centinaia e quel giorno viene ancora ricordato come quello della «strage di via Duomo». La cappella dei Dotti ai Gerolamini non venne colpita in pieno da una bomba, che l’avrebbe devastata, fu centrata da schegge, da pezzi degli altri palazzi che crollavano tutt’intorno. Oggi quel luogo è l’ultima testimonianza viva della strage di via Duomo, ma di questa testimonianza, Napoli non ha bisogno. La città avrebbe il diritto di riscoprire la sua cappella dei Dotti così com’era nel 1787, al momento dell’ultimo restauro. Quella data è scritta sul pavimento della cappella, al centro di maioliche disegnate a fiori. Quelle maioliche rappresentano un piccolo miracolo: nonostante le bombe e i colpi di maglio dell’abbandono nel tempo, hanno resistito con tenacia per oltre duecento anni e sono lì. Aspettano di essere ancora calpestate, magari da turisti e non solo da fedeli, per raccontare la loro storia che si mescola con quella della città antica e che s’è fermata durante un giorno di guerra di 67 anni fa |
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Marcello Mottola
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Posted - 06 maggio 2010 : 23:27:37
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MAGGIO 2010
Le chiese abbandonate Carcasse di auto e rifiuti: così muore il chiostro Il Mattino - Napoli 6/05/2010

Il chiostro seicentesco di Santa Maria di Caravaggio, oggi, è uno sversatoio di pattume: devastato, abbandonato, ricoperto d’immondizia, sfregiato da un immenso tubo di alluminio che ha sfondato i muri, e s’è arrampicato fino al tetto dell’antico palazzo, per portare in alto i fumi di un fast food. Il chiostro si trova esattamente nel cuore della città, a piazza Dante, proprio sotto le finestre della sede della seconda municipalità. Ed è proprio il presidente Alberto Patruno che lancia l’allarme: «Da anni, dal giorno del mio insediamento ho chiesto un intervento di bonifica. Ogni giorno vedo quello scempio e chiedo un aiuto. Per adesso solo l’assessore Giacomelli mi ha ascoltato, aiutandomi in una prima fase di pulizia, ma non basta». Nell’immediato dopoguerra fu compiuto il primo grande sfregio a quel luogo. Il chiostro venne coperto e fu trasformato in cinema. Il cinema Aurora che tutti i napoletani negli anni ’50 e ’60 hanno frequentato almeno una volta. Quando il cinema chiuse, la struttura rimase abbandonata. Con il passare degli anni il degrado prese il sopravvento. Il soffitto crollò e il chiostro riprese le sembianze originali, a cielo aperto. Ma non bastavano i crolli e il degrado, era necessaria anche la mano dell’uomo per dare il colpo di grazia a quel luogo che, sotto agli arredi del cinema, conserva ancora tracce del passato seicentesco: «Quando venne organizzato l’abbattimento delle vele a Secondigliano - spiega il presidente della seconda municipalità - gli arredi lasciati in alcuni appartamenti, furono caricati su grossi camion e portati qui dentro, dove sono tutt’ora conservati». Ma il vero colpo di grazia al chiostro di Santa Maria di Caravaggio, lo diede l’apertura del McDonald’s di piazza Dante: per convogliare i fumi della cottura di hamburgher e patate fritte, qualcuno decise di sfondare una porzione di parete del chiostro che confinava con il ristorante, per farci passare il «camino» di alluminio. Quello sfregio è ancora al suo posto: il grosso tubo passa in quel che resta del chiostro e arriva fino al tetto del palazzo fondato, assieme alla chiesa, nel 1627. Oggi il fast food non c’è più, ha chiuso i battenti, per cui è ancora più difficile pretendere la rimozione di quell’obbrobrio. Al centro del chiostro c’era un pozzo, che venne rimosso quando avvenne la trasformazione in cinema. Il cunicolo del pozzo, però, è stato conservato sotto una botola. Alla presenza di Patruno quel luogo è stato ispezionato dagli speleologi de «La Macchina del Tempo», guidati da Luca Cuttitta. Il pozzo si infila sotto piazza Dante e sfocia in grosse cisterne che, ancora oggi, sono solide e colme di acqua, come se il tempo si fosse fermato: calando un secchio si potrebbe ancora pescare l’acqua, come facevano i monaci più di trecento anni fa. Il futuro di quel luogo abbandonato, nel cuore della città, è ancora incerto. Non esiste un progetto di rivalutazione né di restauro. Sarebbe destinato a rimanere così com’è, se non fosse per la testardaggine di Patruno che continua a scrivere per ottenere la rimozione dei rifiuti e del «camino» di Mc Donald’s: «Ma non dobbiamo fermarci alla pulizia. Questo luogo deve rinascere, va restaurato. Io auspico l’intervento di un privato con il quale discutere un progetto per rivitalizzare questo luogo storico e degradato». |
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Marcello Mottola
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Posted - 16 maggio 2010 : 14:38:56
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MAGGIO 2010
Le chiese abbandonate Santa Maria del Purgatorio L’altare dell’800 usato per smontare i motorini rubati Il Mattino - Napoli 15/05/2010

«Cos’è quella roba?» nel silenzio anche un sussurro pare un urlo e accelera il battito. Andiamo a dare un’occhiata da vicino: «Quella roba» è un pezzo di ciclomotore abbandonato su un altare del 1800. La curiosità del fotografo è soddisfatta. Il moto di stizza e rabbia, se possibile, cresce ancora di più di fronte a quest’altro schiaffo in faccia alla città. Napoli, ex centrale del latte. In fondo alla stradina si nasconde un pezzo di storia di Napoli, un pezzo dimenticato e quindi ridotto in malora: il cimitero delle 366 fosse, quello dei colerosi; ma la chiesetta del Purgatorio è la rappresentazione estrema dell’abbandono di quei luoghi. Se gli automobilisti distratti e imbestialiti per la coda, voltassero lo sguardo a sinistra al casello della tangenziale di Corso Malta, si accorgerebbero che sotto la collina di Poggioreale, in mezzo a una giungla di alberi, rovi e sterpaglia, c’è il rudere di una chiesa-simbolo della Napoli di metà ’800. Sorta nel 1837 per accogliere i morti dell’epidemia di colera prima della sepoltura al cimitero loro dedicato, questa chiesa è stata lungamente frequentata dei napoletani: tutti avevano un parente tra i diciottomila morti portati in quel luogo, non c’era distinzione fra ricchi e poveri, fra nobili e borghesi. E tutti venivano a sentire messa qui, per onorare e ricordare una sorella, un figlio, una madre, un marito. Alla chiesa si accedeva per mezzo di una scaletta di bel marmo. Oggi dei marmi non c’è più memoria e i gradini sono talmente malmessi che ad ogni passo tremano vistosamente, come se volessero venire giù da un momento all’altro. La scaletta è completamente coperta da rovi che si afferrano alle scarpe e ai calzoni, e da erbacce che sono diventate alte come alberelli: per raggiungere l’ingresso bisogna saper sopportare le spine che s’infilano nella carne. Ma il dolore fisico è poca roba rispetto al dolore che provoca la vista dell’interno della chiesa. Realizzata da Leonardo Laghezza, viene descritta nella «Napoli» rivista dal Chiarini sulla base del Celano, come un piccolo gioiello, con un «altare di marmi scelti bianchi e neri». Alla parete dietro l’altare c’era una tela del Salvatore datata 1600, di mano ignota, portata lì da un fedele. Le pareti erano affrescate da Serafino Giannini. Deve essere stata bella, prima che la città decidesse di destinarla alla distruzione. Quel che oggi si vede nella chiesa è semplicemente una sequenza di animali morti per terra, su un pavimento che non c’è, perché è coperto da un palmo di terreno e schifezze. Ciò che salta agli occhi è la recente trasformazione in officina, con tanto di armadietti addossati alle pareti, pezzi di motore, attrezzi sparsi ovunque. L’altare di marmi scelti c’è ancora, purtroppo. No, non è un errore quel «purtroppo». Perché gli idioti che hanno fatto i meccanici qui dentro l’hanno usato come bancone. L’hanno preso a martellate e ridotto a un tavolaccio scheggiato, ci hanno vomitato sopra litri e litri d’olio per auto che, con il tempo, s’è infilato nella pietra porosa e l’ha ridotto a una macchia nera e collosa, sulla quale adesso c’è di tutto. Nemmeno le pareti affrescate sono state risparmiate. Una bella mano d’azzurro-Napoli ha cancellato ogni traccia del passato e forse ha ripulito la coscienza di chi si sentiva «osservato» dai santi e dai martiri dipinti dal Giannini nel 1837. La chiesa del Purgatorio, però, è stata abbandonata anche dai meccanici che si dedicavano a smontare motocicli di dubbia provenienza. Oggi è in balia degli animali, delle piante e delle intemperie. Non c’è più nemmeno il portone che la protegge: è semplicemente una orrenda grotta in cui nessuno ha più voglia di mettere piede. (17. continua) |
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Marcello Mottola
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Posted - 25 maggio 2010 : 20:42:35
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MAGGIO 2010
Le chiese proibite Sant’Agostino al Casale dell’Arenella Abbandono e crolli sta scomparendo il convento del ’500 Il Mattino - Napoli 22/05/2010

È ancora imponente il monastero, anche se è malridotto. Porta i segni del tempo che ha infierito con violenza negli ultimi quattrocento anni: terremoti, invasioni, guerre, saccheggi, bombardamenti, lo avevano ferito ma non ucciso. A dargli il colpo di grazia è arrivata l’incuria dei nostri giorni. Gli ultimi cinquanta anni di abbandono totale sono stati più letali dei precedenti quattrocento. Piazza Arenella, a cinquanta passi dal caos del traffico e delle auto parcheggiate ovunque, affacciandosi in una stradina privata di fianco al fioraio, si può scoprire la sagoma del gigante: il convento degli Agostiniani. È abbracciato da una teoria di tubi innocenti che tengono insieme i muri, a forza. Vorrebbe arrendersi, quella struttura, ma glielo impediscono. Esattamente quattrocento anni fa, nel 1610, venne posata la prima pietra della chiesetta su un suolo ceduto dai monaci Cassinesi. Ma già dal 1575, gli Agostiniani Scalzi si erano insediati qui, al «Casale all’Arenella, circa un miglio fuori delle mura della città». Il convento ebbe vita breve, abitato dal 1575 al 1652, poi la struttura venne trasformata, ci entrarono le persone del luogo. Al piano terra le botteghe, nelle celle dei monaci ai piani superiori, tante casette. La chiesa, invece, non osò toccarla mai nessuno. Rimase lì, in fondo alla struttura, abbandonata ma rispettata nonostante gli affreschi sbiaditi e l’altare malconcio. Poi, una notte di pioggia di qualche mese fa, gli inquilini dei palazzi circostanti si svegliarono per un rumore intenso e cupo. Capirono al volo. Era crollato il soffitto del convento: era crollato esattamente dal lato della chiesa, cancellandola per sempre dalla storia della città. Una parte del convento, però, resiste con prepotenza. Il viaggio tra quelle mura è affascinante e incredibile: nelle stanze con i muri mezzi crollati, sotto a strati e strati di pittura compare ancora il blu elettrico dei giorni della fondazione, quello ottenuto miscelando prodotti naturali. Infilandosi fra travi che scricchiolano e camminando ai bordi delle stanze dove la parte centrale del pavimento non c’è più, si scopre ancora il tufo antico. Crollate giù da un balcone ci sono ancora le inferriate originali, inchiodate, non saldate, come si faceva duecento anni fa. In fondo al giardino c’è, abbandonata, un’auto-furgone degli anni ’50, il cofano ancora alzato per una riparazione mai avvenuta. Le sorprese più emozionanti, però, le regala la cantina dove si accede solo con scale di fortuna, attrezzature speciali e la «guida» speciale dello speleologo Luca Cuttitta de «La Macchina del Tempo». Lì sotto i crolli non sono arrivati e la vita è ferma nel tempo: botti gigantesche, torchi per schiacciare l’uva e fare il vino, immensi martelli per tappi di sughero dal diametro di quindici centimetri. La tristezza per l’abbandono, però, va via quando si scopre che il convento è pronto a rinascere a nuova vita. Non appartiene alla cosa pubblica, è nelle mani di privati che stanno pensando di ristrutturarlo rispettando il disegno originale, recuperando le piccole torri e i meravigliosi cancelli. Potrebbe diventare un hotel o essere destinato a tante piccole abitazioni con la formula del residence. Il progetto più affascinante, però, è quello della creazione di un centro benessere, partendo dal basso dove ci sono le antiche vasche per il vino e arrivando sul tetto che oggi è mezzo crollato, dal quale, in un solo colpo d’occhio, si vede tutto il golfo, da punta Campanella a Ischia: una vista mozzafiato per i bagni di sole del futuro centro benessere. Stavolta, ci piace credere che qualcosa cambierà. E magari, se dalle macerie venisse recuperato l’altare dell’antica chiesa, il progetto di ricostruzione potrebbe prevedere una cappellina: per ricordare che l’Arenella, prima di essere trasformata in un mare d’asfalto e cemento, era un casale tranquillo, adatto alla meditazione. |
Edited by - Marcello Mottola on 25 maggio 2010 20:43:14 |
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Marianna Vitiello
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Posted - 31 maggio 2010 : 12:49:04
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MAGGIO 2010
Le chiese proibite Santa Maria del Rimedio Spunta un soppalco nell’antica cappella dei marinai dell’800 Il Mattino - Napoli 29/05/2010

Le due statue di legno che vedete nella foto grande di questa pagina, appoggiate sulla sinistra dell’altare, rappresentano Sant’Agata e Santa Teresa, probabilmente sono settecentesche. Non sono considerate opere di grande valore ma rappresentano un pezzo della storia della fede dei napoletani: erano collegate alla prua di due vascelli usciti miracolosamente indenni da una tempesta. Vennero staccate e offerte alla Madonna come ringraziamento per lo scampato pericolo. Non tentate di andarle a vedere perché sono prigioniere in una chiesa che non è aperta al pubblico. Via Flavio Gioia, due colonne di marmo incastonate in una facciata dipinta di fresco in color crema costringono a voltare lo sguardo verso la chiesa di Santa Maria del Rimedio. Un tempo quella chiesa si trovava sul «molo grande» del porto, poi venne spostata a più riprese. Nel 1848 venne distrutta per metà e ampliata alle spalle, per lasciare spazio alle attività portuali che avanzavano. Alla fine dell’800 venne completamente abbattuta per fare spazio all’attuale via Marina, e ricostruita nel luogo dove si trova attualmente. Ad ogni ricostruzione, quadri e arredi sacri vennero trasferiti e ricollocati sui cinque altari in marmo: il gruppo scultoreo della Madonna affiancata da due San Francesco, d’Assisi e di Paola; la Vergine di Boulogne, riproduzione di una stampa francese con la Madonna in piedi su una barca nel mare in tempesta; la Madonna del Rimedio, che aveva dato il nome alla chiesa ed era circondata dall’aura del miracolo secondo il quale avrebbe fermato una palla di cannone che stava per colpire la chiesa. Ancora oggi quegli oggetti sono lì dentro. Solo che la chiesa non è più una chiesa. Oggi, con pieno titolo, Santa Maria del Rimedio è stata data in gestione a una società che si occupa di restauro. Naturalmente è tutto lecito e in regola. Però fa male sapere che un pezzo, importante, della storia sacra della città, non appartiene più ai napoletani né ai turisti. La chiesa è protetta da un antifurto che serve a tutelare le opere d’arte presenti e quelle in fase di restauro. È ben tenuta, anche se il lavoro che si svolge all’interno non riesce a preservarne la sacralità. Sugli altari sono appoggiati oggetti di ogni genere, e per ottenere una maggiore area di lavoro, è stato anche realizzato un soppalco. I tubi innocenti che lo sostengono, rendono squallida l’area della chiesa sottostante. Il legno che fa da pavimento al «piano superiore» nasconde la volta della chiesa e anche l’antica scultura della Madonna, accanto alla quale è accatastato materiale di vario genere, dalle sedie agli scatoloni di legno. Una battaglia per la restituzione alla città della chiesa della Madonna del Rimedio viene condotta, con passione, dall’associazione «Centro studi Iniziative Sociali», presieduta dal cavalier Giacomo Onorato che lotta per il recupero dei beni e delle tradizioni storiche. Di recente protagonista di una battaglia per la restituzione del corpo di San Giacomo alla città di Napoli, Onorato ha aperto un altro fronte per la riapertura al pubblico della chiesa dei marinai: «Non è possibile chiudere quella meraviglia dietro a un portone blindato e vietato a tutti». La chiusura al culto della chiesa di Santa Maria del Rimedio non l’avrebbero consentita, certamente, nemmeno i marinai della Napoli ottocentesca. Erano devoti a quel luogo e alla rappresentazione della Vergine che esso custodiva: le chiedevano protezione prima di imbarcarsi, andavano a ringraziarla quando tornavano. Furono grati a Ferdinando II che la fece riedificare dopo il primo abbattimento, seguirono di persona i lavori dopo il secondo spostamento alla fine dell’800. Oggi i marinai non cercano più quella chiesa e quel quadro, ma se vedessero l’immagine della Madonna che sta in piedi su una barchetta nel mare in tempesta si commuoverebbero. Però non possono vederla. È prigioniera in una chiesa blindata dove c’è un soppalco. |
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Marianna Vitiello
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Posted - 10 giugno 2010 : 19:07:24
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GIUGNO 2010
Le chiese proibite L’Immacolata Concezione a Materdei Orrore tra le rovine un pipistrello vigila sul sepolcro Il Mattino - Napoli 05/06/2010

L’unico incontro che avviene tra le rovine della chiesa, in un silenzio cupo e opprimente, lascia un filo di sottile angoscia. Nell’oscurità si materializza prima la cavità degli occhi; poi si intravede il teschio di un animale, infine tutto lo scheletro. Sembra un grosso pipistrello, ha denti aguzzi e brandelli d’orecchie incartapecorite. Non c’è spazio per la pietà nei confronti della bestia: quei resti fanno solo venire i brividi. Salita San Raffaele a Materdei, dove in cima si arriva col fiatone dopo aver dribblato cumuli di rifiuti ingombranti e pericolosi, e aver scansato carcasse di auto e moto. Alzando lo sguardo si scopre un palazzo al quale hanno strappato le finestre, e si vedono lavori lasciati a metà. Un tempo questo era il ritiro dell’Immacolata Concezione a Sant’Efremo Nuovo, oggi è un «non luogo» sospeso nel nulla di lavori di ristrutturazione fermi e scale murate per vietare l’accesso a chiunque. Duecentosessantasette anni fa, quando questa salita era riservata ai monasteri e alle case dei nobili, quel palazzo accoglieva le donne povere della città. Il principe di Ruffano pagava il fitto dell’intero palazzo, il gesuita padre Pepe lo gestiva dopo averlo fondato. Il monastero era dotato di una chiesa grande e accogliente con sei cappelle laterali, altari di bel marmo e quadri che il Chiarini nell’arricchimento ottocentesco della «Napoli» di Celano descrive di mediocre pregio. Alle spalle dell’altare maggiore, sempre secondo Chiarini «una statua della beata Vergine adorna di corona e aureola stellata di argento, lavoro di buon autore del passato secolo». Naturalmente la statua della beata Vergine non c’è più. La nicchia alle spalle dell’altare, che ha ancora colonnine dipinte d’oro e quel che resta di un drappo, è desolatamente vuota. Anche il resto della chiesa è spoglio: non un quadro, non un sedile. Dentro il luogo sacro sono stati letteralmente lanciati attrezzi da lavoro e resti di strutture per l’edilizia. Secondo le persone della zona potrebbero averle abbandonate i ladri che, nel tempo, hanno spogliato la chiesa. Raccontano che una notte sia stato montato addirittura un argano per sottrarre i marmi più pregiati. Colpisce la metodica «ripulitura» di oggetti pregiati che è stata effettuata qui dentro. Colpisce soprattutto il fatto che la spoliazione non si è limitata all’area della chiesa ma è scesa in fondo, dentro le sepolture delle famiglie nobili che riposavano nella chiesa. Camminare in questo luogo è pericoloso, perché il pavimento è costellato da rettangoli vuoti. Sembrano cinque ma potrebbero essere di più. Perché c’è materiale abbandonato ovunque. I marmi che coprivano la terra santa sono stati sollevati e portati via, anche le sepolture sono state meticolosamente visitate. Ora, nei luoghi dove riposavano i morti, ci sono cumuli di immondizia. Non residui di lavori edili ma vero e proprio pattume: buste colme di rifiuti, resti di cibo, bottiglie di plastica. Non abbiamo potuto verificare se sotto ai sacchetti ci fossero ancora le bare perché il lavoro sarebbe stato improbo e ripugnante. L’orrore per la violazione delle sepolture è sempre grande. Nel corso della nostra inchiesta abbiamo più volte raccontato episodi simili: bare spaccate, ossa vilipese per rubare anelli e collane dei defunti. Nel caso dell’Immacolata concezione a Materdei però c’è l’aggravante dello sfregio a una famiglia che ha fatto la storia della città. Dentro la chiesa, spiegano i libri antichi «presso l’altare della cappella a destra sul pavimento è la sepoltura gentilizia della nobile famiglia Serra dei Duchi di Cassano». Dobbiamo fidarci, perché la lapide non c’è più: in quel preciso punto, davanti al rettangolo vuoto, e profondo, sul pavimento, oggi c’è lo scheletro di un pipistrello che fa la guardia al nulla. |
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Marianna Vitiello
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Posted - 13 giugno 2010 : 11:21:17
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GIUGNO 2010
Le chiese proibite Santa Maria a Sicola Deposito abusivo dentro la cappella di re Ladislao Il Mattino - Napoli 12/06/2010

Chiudete gli occhi e immaginate un sabato qualunque del 1401. La corte reale di Ladislao guidata da Giovanna, sorella del sovrano, si muove per le strade di Forcella, imbocca un vicoletto sulla Giudecca Vecchia, e si infila in un fondaco che sbocca davanti a una chiesetta tutta addobbata a festa. È Santa Maria a Sicola, la cappella prediletta da re Ladislao. Un gioiello di stucchi e addobbi, affidato ai prelati più in vista, quelli destinati a salire al soglio pontificio. Ora aprite gli occhi, guardate le fotografie di questa pagina e cercate di resistere al moto di rabbia che vi sta assalendo. Ecco com’è oggi Santa Maria a Sicola: il gioiello sacro costruito 735 anni fa è stato trasformato in un deposito di materiale edile. La parte superiore della cupola è stata letteralmente «segata» per non creare ostacoli al pavimento di una casa abusiva costruita sopra la chiesa, gli altari sono stati divelti, i quadri sono spariti, le acquesantiere usate come posacenere. L’unico segno dell’antica sacralità del luogo è un crocifisso ligneo (sul quale non c’è più Gesù), che però è stato tranciato nella parte inferiore per lasciare spazio a un banchetto dove tenere in ordine gli attrezzi da lavoro. Dello scempio s’è accorta il tenente Filomena Vicario della polizia municipale, durante una delle consuete perlustrazioni per verificare lo stato dei beni monumentali della città. Ha scoperto che la chiesa aveva il portone aperto, e all’interno c’era quel materiale edile abbandonato. Ha immediatamente contattato il tenente Marraffino, responsabile dell’unità operativa San Lorenzo che ha la gestione di quella porzione di territorio. Subito una pattuglia dei vigili è arrivata in supporto: il tenente Umberto Chinetti ha proceduto al sequestro, a tutela del luogo, in attesa di risalire al proprietario. I vigili hanno effettuato una verifica all’interno del luogo ma non c’era più nulla di pregiato, eccezion fatta per un marmo dell’altare maggiore nascosto in mezzo a ferri da lavoro. Per evitare che anche quest’ultimo pezzo della storia della chiesa facesse una brutta fine, quel marmo è stato prelevato e portato al comando a disposizione delle autorità. Sono anche scattate le indagini per scoprire chi ha occupato abusivamente quel luogo. Tra i reggenti della chiesa, quando si chiamava ancora Santa Maria a Sicola, fino al 1502, ci fu anche Giovanni Pietro Carafa che poi diventerà Papa con il nome di «Paolo IV». La storia del luogo è legata a quella del ricovero per le giovani povere della città: tutto il palazzo che proteggeva la chiesa era nato con questa funzione. Poi la zona di Forcella venne considerata poco salubre per le ragazzine e si decise di spostare la casa di accoglienza in un luogo con aria migliore. La casa e la chiesa di Santa Maria a Sicola, nome che il popolo con gli anni aveva storpiato in «Antesaecula», vennero trasferite alla Sanità. La storia dell’abbandono di quel luogo che sta crollando, nella strada dove è nato Totò, l’abbiamo raccontata nel corso della nostra inchiesta. Con il trasferimento dell’immagine della Madonna, la cappella cara a re Ladislao perse anche il nome e tornò ad essere una «normale» chiesa di Napoli fino al 1824. In quell’anno Ferdinando I la affidò all’arciconfraternita dei «paradori» che la dedicarono al loro patrono, San Nicodemo. I «paradori» anche conosciuti come «apparatori», erano le persone che si occupavano di addobbare le chiese nei giorni di festa. All’interno dell’antica chiesa diedero massimo sfogo alla loro arte: arricchirono l’interno fino all’inverosimile di drappi e cornici che fecero un pessimo effetto agli storici narratori di Napoli dell’800. Dall’ultimo nome della chiesa prese il nome la stradina che la congiunge a Forcella e che ancora oggi si chiama «fondaco cappella dei paratori». Anche quel breve tunnel, il fondaco, un tempo era ricco e decorato: si riconosce, nel piperno sulla sinistra, una porzione di incisione che ha resistito agli sfregi del tempo e alla devastazione edilizia. La chiesa di Santa Maria a Sicola ora è chiusa con due assi di legno e con un lucchetto messo dai vigili. Dovrebbe avere attenzione, potrebbe essere restaurata e restituita alla città o, almeno, liberata da travi, sacchi di cemento e bidoni di pittura: la chiesa di Ladislao non merita questa orribile fine |
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Marianna Vitiello
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Posted - 22 giugno 2010 : 18:01:17
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GIUGNO 2010
Le chiese proibite San Carlo alle Mortelle Dopo la voragine resta l’abbandono otto mesi di silenzio Il Mattino 19/06/2010

Napoli è abituata ai disastri, ha imparato a sopportare, reagire e poi andare avanti con insospettabile e invidiabile leggerezza. A San Carlo alle Mortelle, nove mesi dopo gli sprofondamenti, la vita è tornata quella di sempre: se non fosse per quella maledetta polvere fine e insidiosa che da nove mesi si solleva al primo alito di vento e si infila ovunque, nessuno ripenserebbe alle voragini che il 23 settembre dell’anno scorso, hanno ingoiato strade e bassi. Oggi quei giganteschi sprofondamenti sono stati riempiti, le auto circolano, gli scugnizzi sono tornati padroni della strada. L’unico segno reale e tangibile del dramma di quella notte, è l’antica chiesa; è avvolta da un immenso telo verde che ricopre una ragnatela di tubi innocenti necessari per reggere la struttura ancora non agibile. Davanti alla chiesa, nella piazzetta impolverata e costellata di pattume, passano uomini, donne e bimbi che sorridono al parroco, don Mimmo Toscano, e lo interrogano «quando riaprirà?». Il parroco sorride e chiede pazienza. È un bel tipo di prete che sarebbe banale chiamare «di frontiera». Don Mimmo forse è un prete da strada, o semplicemente un prete e basta, che vive con la gente, per la gente: strette di mano e parole di conforto alle signore-bene, dialetto e maniere forti per strappare uno scugnizetto arrampicato su un cancello «scinne a ’lloco», scendi da lassù. Quando infila la chiave nella serratura della Chiesa di San Carlo alle Mortelle, Don Mimmo fa un respiro profondo. Poi spalanca il portone sul disastro. La voragine che divorò il pavimento settecentesco, le panche, le sedie e gli inginocchiatoi, è stata riempita con cemento speciale. Ora, al primo passo dopo il portone, non c’è più il vuoto ma è comunque proibito camminare lì dentro: c’è una passerella di legno per avventurarsi in fondo alla chiesa e scoprire qual è lo stato. Il primo colpo alla struttura arrivò nel 1688 quando un terremoto la lesionò parzialmente. Fu rimessa in sesto e non ebbe altri sussulti fino alla metà del ’700 quando si verificò un problema statico dovuto (anche allora) al cedimento di una cavità sottostante. Dal 1773 a 2009 la vita di San Carlo alle Mortelle (per i napoletani le «mortelle» erano le bacche di mirto che abbondavano in quella zona) era stata tranquilla, fino alla maledetta notte del 23 settembre. Gli interventi delle prime settimane avevano dato speranze. Nelle prime ore sembrava che la chiesa dovesse essere abbattuta, poi si scoprì che il problema era meno grave: cisterne e cisterne di cemento speciale svuotate nella voragine hanno restituito una buona base all’edificio. E lì s’è fermato l’intervento. Nei mesi successivi tutti gli sforzi sono stati concentrati nel recupero statico dei palazzi circostanti e nella riapertura della strada. La chiesa antica, simbolo del luogo, è stata dimenticata, lasciata chiusa a impolverarsi e a riempirsi di crepe. I tecnici hanno stabilito che la struttura ha subito una «torsione» verso la stradina che la costeggia. Alle prime piccole crepe, se ne aggiungono ogni giorno di nuove, che mettono i brividi, anche se gli esperti dicono che non c’è da preoccuparsi. La chiesa, però, è considerata inagibile: nessuno può entrarci. Così dopo quattrocento anni di vita intensa e caotica, quel luogo si è arreso agli ultimi otto mesi di irreale abbandono, e di silenzio. L’edificio appartiene al Fec, il fondo statale degli edifici di culto. Dalla Prefettura seguono con costanza la vicenda, informano il parroco su ogni possibile sviluppo. Però attualmente non c’è nulla da fare: mancano i fondi per il restauro, bisogna avere pazienza. La chiesa è stata ben preparata ad affrontare i lavori. Quadri e arredi sono stati rimossi, i marmi sono stati ricoperti con attenzione da strati di stoffa bianca. Tutto sarebbe pronto per l’inizio della ristrutturazione, l’unica cosa che manca sono gli operai al lavoro. E non è previsto il loro arrivo in tempi stretti. |
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